sabato 23 marzo 2019

L'arte del Riciclaggio - Tesi di Laurea Tasso Marcello- Accademia Belle Arti di Napoli

L'ARTE DEL RICICLAGGIO - TESI DI LAUREA DI TASSO MARCELLO
ACCADEMIA DI BELLE ARTI DI NAPOLI -Marzo 2019


Come abbiamo già fatto in precedenza diamo spazio ad un'interessante tesi di un giovane artista di Spinea che si è recentemente laureato al Corso triennale di Scultura presso l'Accademia di Belle Arti di Napoli.
L'artista sensibile al tema ambientale, ha affrontato il problema dei rifiuti e del consumo delle risorse attraverso la costruzione di maschere di animali in via di estinzione, interamente fatte con materiale riciclato.
Nel corso della tesi ha affrontato il problema del riciclo, del consumo di energia e dello spreco di risorse indicando nell'economia circolare la risposta a questo grande problema.

Queste le motivazioni dell'autore:
Tutto ciò che inquina è un prodotto che viene rifiutato.
Generare rifiuti è un problema per l’ambiente e per l’uomo, un problema
che potrebbe portare all’estinzione della vita sull’intero pianeta.
Un giorno non troppo lontano l’umanità potrebbe autodistruggersi,
portando con se morte, distruzione e tossicità.
La larva della tarma della cera (Galleria mellonella) è in grado di
mangiare la plastica, confondendola con la cera di cui solitamente di
nutre. Lo scarafaggio è in grado di sopravvivere ad un’esplosione
atomica. In qualche modo sembra che il pianeta voglia difendersi, queste
specie sono state in grado di adattarsi ad un cambiamento in un modo
straordinario; addirittura meglio dell’uomo.
La biodiversità è seriamente compromessa dai rifiuti; in questa tesi il mio
intento è stato quello di promuovere il rispetto per l’ambiente, cercando

di ispirare a riciclare, riusare e non inquinare.

Di seguito la tesi si può leggere per intero cliccando su questo link:
L'arte del riciclo - Tesi di Laurea di Marcello Tasso

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L’ARTE DEL RICICLAGGIO 
ACCADEMIA DI BELLE ARTI DI NAPOLI
Diploma accademico di Laurea di primo livello in Scultura -
MARCELLO TASSO

INDICE

Introduzione

Capitolo 1. CONTESTUALIZZAZIONE STORICA

- Storia dell’arte del riciclaggio, dai collage di Picasso alle “Earthships
Biotecture” di Micheal Reynolds

Capitolo 2. DISCUSSIONE ECONOMICA ED AMBIENTALE SUI RIFIUTI
- Dare una seconda vita agli oggetti, Il riuso come parte integrante
dell’economia?
- Gli animali prime vittime dell’economia capitalista
- Dati sull’inquinamento degli oceani

Capitolo 3. MASCHERE DI ANIMALI
- Simbologia della maschera animale
- Animali che riciclano
- Maschere di animali a rischio d’estinzione
Conclusione

Introduzione
L’ Arte del Riciclaggio lega molti grandi artisti della storia dell’arte contemporanea.
Riciclare è sintomo di forte sensibilità, significa voler continuare a far vivere le cose. Dove la persona comune vede un vecchio oggetto come uno scarto, l’artista contemporaneo riesce a vedere l’oggetto come “nuovo”. Il concetto e la storia che l’oggetto porta con se permettono all’artista di dargli un valore e nuova vita, così creando un’opera d’arte.
La sensibilità nel riciclare consiste anche nel aver a cuore l’ambiente e gli animali. Quindi l’arte del riciclaggio deve considerarsi essenziale come risorsa per riequilibrare le sorti del pianeta.

Capitolo 1. CONTESTUALIZZAZIONE STORICA

- Storia dell’arte del riciclaggio, dai collage di Picasso alle “Earthships Biotecture” di Micheal Reynolds
La materia “rifiutata” entra nel mondo dell’arte nel momento in cui l’arte trova interessante questo materiale per esprimere particolari istanze contemporanee. È con le avanguardie storiche, fin dagli anni Dieci, che possiamo assistere ad un cambiamento per quanto riguarda i materiali utilizzati per creare un’opera d’arte. La prima  Innovazione che porta a comparire nell’arte materiali nuovi o inusitati è la tecnica del collage,
termine che indica una composizione di frammenti di carta uniti ad altri materiali disposti su un supporto.
Fu Braque a usare per primo nell' estate del 1912 frammenti di carta da parati per ultimare una serie di disegni a carboncino. Picasso, entusiasta del procedimento, realizzò dei "papiers collés" e fu allora che prese forma “Nature morte à la chaise cannée”, (Natura morta con sedia impagliata), un dipinto che è il "manifesto" del collage. Picasso anziché dipingere una sedia rivestita di paglia prese un pezzo di tela cerata raffigurante l' intreccio del piano, e usò una vera corda come cornice.
Nel quadro figurano altri oggetti: una fetta di limone, un triangolo a festoni, la stilizzazione di una capasanta, un bicchiere appena accennato da sommarie pennellate, la cannuccia e il fornello di una pipa. A sinistra si leggono le lettere "jou", le iniziali di journal o di jouer, giocare. Il quadro è effettivamente un gioco di parole e di immagini, è il primo collage della storia della pittura, la materializzazione di una nuova tecnica che da quel momento dilagò .
Fare arte dunque non significa più solo saper usare le tecniche ma significa scegliere di usare dei materiali che rappresentano per se stessi un significato, per conferire importanza e contenuto a materiali poveri, addirittura di scarto.
Impiega infatti, durante tutto l’arco della sua carriera, l’assemblaggio, per unire strisce di stoffa, frammenti di lamiera, sabbia e perle, ritagli di giornali, cartone, fil di ferro, corda e così via come nel suo primo assemblaggio del 1912, “Chitarra”.
Nel 1914 l’artista realizza la sua prima scultura a tutto tondo dal titolo Bicchiere di assenzio, di cui realizza sei esemplari in bronzo, tutti con un vero cucchiaio di assenzio incorporato. Con il termine assemblage si intende dunque un’opera tridimensionale caratterizzata dall’unione di diversi materiali (spesso di scarto) o oggetti o pezzi di oggetti incollati o tenuti insieme tra di loro in qualche modo. Il termine è stato coniato da Jean Dubuffet nel 1953 per definire questa pratica discutendo di statuette fatte di cartapesta e rifiuti.
Come reazione diretta al collage cubista prese forma il collage futurista con Boccioni, Balla e Carrà, il quale scopriva che applicando forme colorate in rilievo poteva conferire al quadro un carattere industriale che porta fuori dalla pittura da museo. Mentre Severini scrive nel 1917: “È certo che a ogni civiltà corrisponde una forma d’arte e che per creare tale forma d’arte l’artista deve comprendere e amare gli oggetti e i corpi che vivono nella sua epoca. […] Non intendo porre limiti alla scelta del soggetto, vorrei solo che fosse chiaro che gli oggetti familiari che ci circondano e dei quali ci serviamo correntemente costituiscono dei ‘soggetti moderni’ e che non c’è bisogno di rompersi la testa per andare a cercare fuori di noi stessi dei ‘soggetti’ che sarebbero necessariamente ispirati da concezioni intellettuali di ordine più o meno filosofico e non da un senso puramente plastico, dal desiderio di fare unicamente pittura. […] L’ossessione di penetrare, di conquistare con tutti i mezzi il senso del reale, di identificarsi con la vita, con tutte le fibre del nostro corpo è alla base delle nostre ricerche, e delle estetiche di tutti i tempi.
In tali cause d’ordine generale va ricercata l’origine delle nostre costruzioni geometriche ed esatte, dell’applicazione sulla tela di materie differenti come stoffe, paillettes, vetro, carte che purtroppo sono stati più o meno mal compresi o sistematizzati”.
Nel 1919 Raoul Hausmann realizza “Esprit de notre temps”, costituita da una testa di legno di un manichino con incollati diversi elementi: un portafoglio in pelle, un cartoncino bianco, un portamonete, un pezzettino di metro da sarti, una cassa di orologio, un righello. Tutti oggetti di uso quotidiano e oggetti che misurano lo spazio ed il tempo,
come a simboleggiare che nell’epoca industriale del capitalismo economico, gli oggetti ed il tempo si sono Impossessati dell’anima degli individui trasformando l’essere umano in un manichino privo di emozioni.
Le opere “Ruota di bicicletta” e “Fontana” di Marcel Duchamp riescono a trasformare l’oggetto rifiutato in qualcosa di diverso rispetto alla sua natura e quindi assumono importanza negando la propria funzione:
sullo sgabello non ci si può sedere così come la ruota non trasforma in atto il suo movimento. Su questo si basa il concetto di ready made, portato all’estrema evidenza in “Fontana” per la quale invece è rilevante ricordare che è considerata una delle opere più rappresentative del Novecento. Il movimento dada porta alle estreme conseguenze la critica al sistema dell’arte; il rifiuto diventa il messaggio. Duchamp intendeva realizzare un oggetto da osservare nell’indifferenza, “come si guarda il fuoco di un caminetto”. Da notare come l’oggetto diventi, sebbene al momento dell’esposizione non fosse stata accettata dalla giuria in quanto l’oggetto non venne ritenuto artistico.
André Breton, critico e teorico del surrealismo, descrive “Fontana”come oggetto industriale promosso alla dignità di oggetto d’arte dalla scelta dell’artista.
Duchamp, in relazione allo Scolabottiglie (1915), dice: “Quello che mi spingeva a scegliere un oggetto era un senso di indifferenza nei suoi confronti, e non era affatto facile, perché qualunque cosa, se la si guarda abbastanza a lungo, diventa bella. Quando feci lo Scolabottiglie non era particolarmente interessante né per la forma né per altro […]. Dicono che sia bello, ma io non l’ho scelto per la sua bellezza. […] Un pittore dipinge e imprime il suo gusto in ciò che dipinge…
Nel caso dei ready mades si trattava di liberarsi di tale intento o sentimento e di eliminare del tutto l’esistenza del gusto”. Duchamp compie in questo modo un atto dissacratorio privo di precedenti. Il ready-made porta con sé un significato contraddittorio: da un lato, essendo realizzato con un oggetto industriale o comune, espone tutta la propria materialità fisica; dall’altro nega la manualità del fare artistico che si riduce a pura scelta intellettuale. Questa tecnica introduce quindi una critica all’unicità e all’originalità di un’opera d’arte, togliendo importanza al gusto e alla manualità ma conferendone invece all’idea. Il ready-made viene utilizzato negli anni Trenta anche dal surrealismo: si parte in genere da un objet trouvé che viene tolto dal suo contesto originario ma rimanda ad altri simboli attraverso l’accostamento con altri oggetti o materiali: “Dejeuner en fourrure” di Meret Oppenheim ne è un esempio. Si tratta di un servizio da colazione ricoperto di pelliccia di gazzella cinese. Oppenheim è un’artista infatti portata a realizzare delle opere cercando di mostrare il loro lato oscuro o nascosto o semplicemente cercando di creare delle contraddizioni; l’opera in questione nasce sorseggiando un caffè in compagnia di Picasso il quale,
notando un suo braccialetto realizzato in pelo, le chiese se fosse in grado di ricoprire qualsiasi cosa con lo stesso pelo. Oppenheim rispose di sì e vinse la sfida proponendo tazza, piattino e cucchiaio rigorosamente coperti di pelliccia . Il “gesto” vale più dell’opera già per i dadaisti, portare in una mostra un oggetto di questa sorta significa andare contro l’arte come era stata intesa fino ad allora; bisogna rifiutare tutto: la bellezza estetica, la logica, la purezza dei principi. Dada è libertà, spontaneità, contraddizione, anarchia, imperfezione: carta straccia, corde e rottami possono creare opere d’arte alla stregua di altri materiali ritenuti più nobili. È un gesto che significa protesta e provocazione. Tali opere/oggetti oggi non ci sembrano più così provocatori perché il tempo li ha resi comprensibili e in un certo senso normali. Quello che ci colpisce oggi invece è, come in ogni tempo, la modernità dei nostri giorni, e quindi oggi, come allora, vediamo in certe opere d’arte attuali degli oggetti incomprensibili e provocatori.
Dada è ancor oggi un punto di riferimento per molti artisti che si servono di rifiuti per fare arte. Con dada l’opera d’arte ha perso per sempre la sua nozione di opera d’arte appunto facendo entrare definitivamente la vita  quotidiana nel circuito artistico.
Naum Gabo è uno dei primi all’inizi del novecento ad utilizzare la plastica nelle sue opere. La celluloide, la prima materia plastica della storia, per la produzione artistica, nel 1917 (Testa di donna, 1917). Nel costruttivismo Gabo perseguiva una pura ricerca spaziale, che lo distinse e lo mise in contrasto con il costruttivismo sovietico degli anni venti, la cui ricerca si poneva invece in rapporto all'industria e alla produzione.
Tra la fine degli anni Quaranta e l’inizio dei Cinquanta è il momento dell’espansione del movimento informale. Caratteristiche importanti di questa corrente sono la decisione di abbandonare la forma e l’importanza del gesto e per taluni artisti anche l’introduzione della materia nelle opere attraverso il collage. Una figura importante della corrente informale è Alberto Burri. Presto, si allontana dalle raffigurazioni realiste e comincia ad avvicinarsi all’astrattismo. Nel 1949 realizza il primo “Sacco” stampato. In questi anni crea molte opere e partecipa a molte discussioni artistiche, partecipa alla Biennale di Venezia e inizia l’opera Grande Sacco. Dal 1952 realizza i suoi primi sacchi, che sono le sue opere più conosciute, per le quali usa vecchie tele di juta, rattoppate e bucate, come “colore” per la sua pittura. La sua novità è che egli trova frammenti di materiali diversi e li propone come opera d’arte. Le sue opere, realizzate con catrame, muffe, ferri e plastiche, rivoluzionano il rapporto tra materia, forma e colore. Le mostre di Chicago e New York del 1953 segnano l'inizio del successo internazionale. Nel 1954 realizza piccole combustioni su carta. Continua a utilizzare il fuoco anche negli anni successivi, realizzando Legni (1956), Plastiche (1957) e Ferri (1958 circa). Tra il 1961 e il 1969 Burri realizza il ciclo di Plastiche combuste. L’utilizzo di rifiuti e scarti può essere considerato dunque sintomo di una sorta di ribellione nell’arte venutasi a creare dopo il secondo dopoguerra.
E’ questo il periodo in cui infatti numerosi artisti cercano di portare in scena quella che per loro era la realtà pura, l’unica rappresentabile, diversa da quella fino ad allora mostrata con l’astrattismo e soprattutto l’espressionismo astratto che doveva essere superato in quanto considerato obsoleto e narcisistico.
Si tratta di una sorta di rivoluzione avviata da artisti come Picasso o Duchamp, ancora in attività, che rappresentano con la loro arte lo spirito di cambiamento ricercato. Questi due movimenti riescono, attraverso il loro operare, a trovare la bellezza nei rifiuti della società; l’artista conserva ciò che la società scarta, ridà dignità agli oggetti destinati al macero e in questo modo li salva, li colleziona e li protegge Jean Tinguely, esponente del nouveau realisme, è invece affascinato dalle macchine e dal loro movimento fisico: tutte le sue opere sono congegni meccanici realizzati con materiali riciclati. I suoi punti di riferimento sono i futuristi, dada, Duchamp; lo stesso artista infatti ammette: “Pratico sempre lo sport dell’objet trouvé”. Tinguely utilizza oggetti di recupero, residui di macchine, pezzi, scarti, ruote, tubi raccolti in giro per discariche per riassemblarli poi in nuove conformazioni inutili in quanto inutilizzabili e senza alcun equilibrio. Si tratta di una chiara critica sia al culto della macchina a lui contemporaneo sia anche alla scultura tradizionale (in chiara contrapposizione alle sculture del periodo totalitario degli anni Trenta) così privata di stabilità. Inizialmente le sue macchine sono mosse da una manovella o spinte con energia idrica; in seguito, negli anni Cinquanta, aggiunge alle sue opere un motorino nascosto che permette loro il movimento. Queste ultime sono meglio conosciute come Méta-métaniques, macchine semoventi costituite anch’esse da oggetti trovati e saldati tra loro in forme antropomorfe per accentuare il concetto di organismo vivente dell’opera e quindi il fatto che sono esseri autonomi e vivono una loro esistenza fuori dal classico quadro: abbiamo a che fare infatti con macchine in grado di realizzare dei disegni o di emettere dei suoni come in Relief Sonore (1955).
Una sua notissima opera è Homage a New York del 1960, una grande macchina inutile che l’artista espone nel giardino del Museo d’arte moderna di New York, accumulando e assemblando elementi che recupera nelle discariche della città: parti di motore, ottanta ruote di bicicletta, un pianoforte, un go-cart, un ventilatore, una radio, tubi e così via… Per questo motivo la macchina è in continuo mutamento fino ad arrivare al suo scopo cioè quello di venir messa in azione, tra vari movimenti e rumori, e dopo mezz’ora autodistruggersi in un incendio.
La macchina dovrebbe rappresentare l’esaltazione ma allo stesso tempo la negazione della materia industriale di cui è composta; è una parodia del destino di tutte le macchine e di tutti gli organismi viventi.
Quella di raccogliere scarti fu una pratica diffusa soprattutto intorno agli anni Sessanta per quanto riguarda il new dada e il nouveau realisme ma protrattasi fino ad oggi con il nome di trash o junk art ad indicare il ruolo dell’oggetto svalorizzato che viene riposizionato sotto una nuova veste. Il termine junk (spazzatura), come quello di pop art, fu coniato dal critico d’arte Lawrance Alloway nel 1961 ad una mostra presso il Museum of Modern Art di New York dal titolo “The Art of Assemblage”, curata da William Seitz e a cui presero parte artisti quali Duchamp, Braque, Picasso, confermò come l’arte dell’assemblaggio di avesse preso definitivamente piede nel mondo dell’arte e  all’apprezzamento del pubblico.
Nel 1953 Robert Rauschenberg realizza la serie “elemental sculptures” in cui usa pietre, legno e chiodi, costruendo composizioni equilibrate con materiali semplici ; tra il 1954 e il 1964 si dedica alla serie che probabilmente lo ha reso famoso, i “Combines”, dove in ogni opera la differenza tra scultura e pittura viene annullata.
Oltre un anno dalla sua morte, il Guggenheim di Venezia dedica una mostra all’ultima serie di sculture di Robert Rauschenberg, i “Gluts”, assemblaggi di oggetti di recupero, spesso in metallo.
Le sue opere nascono come commenti visivi alla crisi economica causata dalla speculazione, infatti, nella metà degli anni ’80 l’economia del Texas è attraversata da una recessione provocata dalla saturazione del mercato petrolifero: è Rauschenberg stesso ad affermare di voler “offrire alla gente le proprie macerie”. Dal 1970, trasferitosi a Captiva Island, Florida, l’artista va spesso in una discarica vicino alla sua nuova casa- studio: qui recupera oggetti vecchi come ventilatori, segnali stradali, ruote, tubi, marmitte e insegne di distributori di benzina, tutti oggetti che costituiscono il materiale base dei suoi “Gluts”, sculture invase da un senso di “classicismo contemporaneo”, per la loro armonia compositiva e cromatica nel saper creare una “estetica del rottame”, da dove nasce anche un messaggio atto a commentare la situazione socio – politica contemporanea. Infatti, lui stesso dichiara di voler mostrare il “momento dell’eccesso e dell’avidità rampante”, sottolineando la necessità di “guardare le cose in relazione alle loro molteplici possibilità”.
Tali affermazioni sono utili per contestualizzare queste opere d’arte, che, se si presentano a volte come costruzioni minimali o composizioni barocche, sono sempre legate agli stessi oggetti ritrovati. Gli elementi dei “Gluts”  rimangono oggetti riconoscibili che appartengono al nostro immaginario personale.
Da qui emerge perfino un aspetto ludico, provare a capire la forma e la funzione originaria degli oggetti usati, il cui soggetto rimane comunque il materiale. In mostra sono esposti anche i "Neapolitan Gluts", prodotti per la scenografia di Lateral Pass della Trisha Brown Company (1987): l’artista raccoglie per le strade di Napoli rifiuti metallici e crea dei gluts che venivano sospesi sul palco del Teatro di San Carlo di Napoli.
Teatro San Carlo di Napoli, “Napolitan Gluts” .
"L'avidità è all’ordine del giorno, e con questa mia opera tento solo di mostrarlo, cercando di svegliare la gente. Voglio semplicemente rappresentare le persone con le loro rovine, sto dando loro ricordi senza nostalgia. Ciò che devono realmente fare è offrire alle persone l'esperienza di guardare le cose in relazione alle loro molteplici possibilità".
Robert Rauschenberg

"Non ho mai provato interesse per i rifiuti, è un termine generico ed è talmente irresponsabile usarlo. Quando smetteremo di impiegarlo, ci renderemo conto del numero di differenti materiali da cui è formato e quindi tratteremo la questione in maniera diversa. È vero, è solo un esempio, un esempio veloce di come le cose possano funzionare, perché si può anche vedere questa roba come rifiuti sulla spiaggia oppure si può iniziare a pensarci sopra. Ogni elemento è magnifico, oppure brutto o qualsiasi altra cosa. Dipende dalla nostra gamma dei criteri" .
Tony Cragg
Questa frase fa da filo conduttore tra l’appello ambientalista discusso nella mia tesi e le esperienze del collage, assemblage, object trouve, ready made e tutte le junk-art.
Tony Cragg nasce a Liverpool nel 1949, le installazioni site-specific sono le sue prime opere a renderlo famoso, realizzate con materiali ed oggetti di scarto. Nel 1975 realizza lo “Stack”, un cubo di materiali riciclati avente pari altezza a quella d’una persona.
Nei primi anni Ottanta Cragg indaga l’impatto dell’uomo sulla natura attraverso installazioni create a partire da ready-made e oggetti di scarto. In “New Stones, Newton's Tones” oggetti e frammenti di plastica trovati sulle spiagge, sono disposti dall’artista in un ordine cromatico che richiama lo spettro di Newton. Collocati sul pavimento di uno spazio espositivo questi reperti alludono in modo poetico ad una sorta di archeologia della quotidianità.
Dagli anni novanta oltre alla plastica inizia ad operare anche con altri materiali riciclati come vetri, ceramiche e metalli; ne sono un esempio le opere :”Larder”, “Minster”, “Zooid”, “Spyrogyra”.
Michelangelo Pistoletto realizza opere in materiali riciclati. Nella sua opera più famosa, “La Venere degli Stracci” vi è un netto contrasto fra il corpo etereo della bianca statua in cemento e l’ammasso di stracci, contrasto fra l’ immagine immutabile della divina bellazza classica e la modernità in continuo movimento e mutamento. Pistoletto realizza un Tempio interamente composto di materiale riciclato, cestelli di lavatrici come capitelli, serpentine di frigoriferi nella realizzazione di tetto e frontone; elementi rivoluzionari , all’avanguardia e metaforici.
"L'Italia riciclata", ideata per la Biennale Internazionale di Architettura di Venezia nel 2012, toccata e percepita da tutti in tutti i sensi, per essere fruita anche dai non vedenti. L'opera, che allude ad un nuovo Rinascimento attraverso il riciclo e il recupero di materiali.
Michael Reynolds è il padre della “Biotecture”, una particolare tipologia di architettura che ruota attorno ad un concetto portante: quello di ecosostenibilità. Reynolds inizia il suo progetto ecosostenibile nel 1969, dopo essersi laureato in Architettura presso l’Università di Cincinnati, discutendo una tesi sulle costruzioni effettuate con materiali anticonvenzionali.
La “Thumb House” rappresenta uno dei suoi primi progetti in stile “Biotecture”, ultimato nel 1972, utilizzando bottiglie di birra, uno strato di malta e uno di intonaco overlay, dando origine al termine “Earthship Biotecture”, termine chiave per identificare le sue creazioni, fonte di ispirazione per molti artisti nel mondo. Reynolds ha continuato a migliorare il suo progetto con i pannelli solari e il riscaldamento geotermico delle mura, fino a che, nel 1980, quando famosi attori americani gli commissionarono case, divenne noto come “Green Hero”, pubblicando cinque libri sull’architettura ecosostenibile. Le case “Earthship”, meglio note come “navi della terra”, consentono uno scambio continuo con la natura e l’ambiente circostante, sono realizzate con materie prime naturali, in terra, paglia, sabbia, legno, e con materiali riciclati di origine industriale , come lattine di alluminio, pneumatici e bottiglie in vetroSono autosufficienti e indipendenti, non necessitano di riscaldamento, che avviene al loro interno grazie all’energia solare, né di raffreddamento, che avviene tramite la traspirazione per mezzo della terra. Le murature continue seminterrate sono fatte con pneumatici riempiti di sabbia, rivestiti con un intonaco di terra cruda. I tetti delle abitazioni sono conformati in modo da convogliare l’acqua piovana nelle cisterne di accumulo, dalle quali viene riutilizzata per usi alimentari e sanitari, per irrigare le piante delle serre, dove avviene anche la fitodepurazione per l’accumulo in fossa settica o fogna esterna. Le Earthships si integrano perfettamente con l’uomo e con l’ambiente circostante.
Ma i problemi non stentano ad arrivare e le lamentele arrivano proprio da chi ha deciso di vivere in questo tipo di case, che sostengono la non sicurezza e la non garanzia di un buon livello di comfort. Il Consiglio di Stato degli architetti del New Messico, tolse la licenza a Reynolds ma tenacemente dopo 17 anni riconquistò il titolo e le licenze necessarie per costruire le sue “Earthships”.
Nel 2004 , lo Tsunami colpì le coste dell’India e dell’Indonesia . Reynolds e la sua squadra operarono, insieme a tutta la popolazione, per aiutarli a costruire nuove case: nasce “Phoenix”, un’abitazione al 100% ecosostenibile fatta con bambù, terra, cemento, bottiglie di vetro, plastica e pneumatici.
Si tratta di case in grado di resistere ad un terremoto corrispondente al nono grado della scala Richter e alle devastanti onde dello Tsunami, abitazioni che accumulano il calore solare d’inverno e sono dotate di un ingegnoso sistema di ventilazione in estate; l’acqua piovana viene raccolta, depurata e usata per le necessità dell’orto integrato all’abitazione, mentre le acque reflue sono gestite autonomamente da ogni famiglia, che le ricicla, sfruttandole per le piante.
Un concetto di casa rivoluzionario. Sono case “possibili”, ma anche auspicabili per azzerare l’impatto delle costruzioni sull’ambiente e per fronteggiare la scarsità delle risorse energetiche, ripensando il mondo di abitare, in linea con i diversi eventi naturali.

“Thomb House”.


“Earthship”.

“Earthship”.


Capitolo 2.

RICICLO DELL’IDEA
- Dare una seconda vita agli oggetti, il riuso come parte integrante dell’economia Secondo il docente di Antropologia dell’università di Pisa, Giovanni Boschian, 300 mila anni fa l’uomo di Neanderthal praticava il riciclaggio; studia il sito archeologico di Castel Guido, vicino Roma. Il docente spiega che i nostri antenati erano dediti allo sciacallaggio e spesso mangiavano gli avanzi di altri predatori, compiendo già una sorta di riciclo anche se non lo si può considerare appieno come riciclaggio.
Tuttavia i Neanderthal si nutrivano del midollo osseo e le ossa non venivano considerate come un rifiuto bensì una risorsa in quanto venivano utilizzate per ricavarne punte di lancia ed altri utensili; questa può considerarsi la prima forma di riciclaggio dell’uomo.
Tuttavia sembrerebbe che giunti nostra epoca, l’ uomo non abbia evoluto molto l’arte del riciclaggio bensì l’arte oscura dello sciacallaggio. La fame nel mondo cesserebbe in un paio di giorni se si smettesse di produrre armi e in generale produciamo troppo e continuiamo a creare rifiuti perché iniziamo a considerare un oggetto obsoleto o inutile e lo gettiamo. Ad esempio con una confezione di pomodorini ci si può fare un vaso per il basilico.
Uno dei più grandi problemi sono le lobby del petrolio che continuano a produrre prodotti e confezioni di plastica che gli garantiscono un enorme ricavato. Petrolio significa soprattutto energia, ma l'oro nero serve anche per realizzare un'infinità di prodotti di uso quotidiano. Dal petrolio raffinato si ricavano, infatti, circa una ventina di prodotti, bottiglie e oggetti di plastica, polistirolo fino ad alcuni tessuti di abbigliamento, come il polyestere. Da un barile di petrolio si possono ricavare ben 1.750 bottiglie di plastica da un litro e mezzo, quelle comunemente usate per acqua minerale e bibite. Un barile contiene, infatti, convenzionalmente 159 litri di greggio, pari a circa 135 chili.
Servono all'incirca 2 chili di petrolio per fare 1 kg di plastica per alimenti (Pet). Quindi da un barile di petrolio si ricavano circa 70 chili di Pet.
In Italia consumiamo mediamente 5 litri di petrolio al giorno per persona, ossia circa un barile di petrolio al mese.
Il consumo di petrolio annuale medio per una famiglia di 4 persone in Italia si aggira quindi intorno a 7.760 litri. Quasi 2.000 Euro ai prezzi del 2005. "Non c'è assolutamente alcuna logica nel confezionare qualcosa di così effimero come il cibo in qualcosa di indistruttibile come la plastica". La frase pronunciata da Sian Sutherland, co-fondatrice di “A Plastic Planet” una campagna per l'eliminazione della plastica che sta dietro l'apertura della prima corsia di supermercato "plastic free" appena avvenuta ad Amsterdam, nei Paesi Bassi, riassume efficacemente la questione. La catena olandese “Ekoplaza” nasce, come il nome suggerisce, con una particolare attenzione all'ambiente. Adesso offre ai propri clienti, che hanno a cuore le sorti del pianeta quando fanno la spesa, la possibilità di scegliere tra 680 prodotti confezionati in vetro, cartone e materiali biodegradabili che assomigliano alla plastica ma non inquinano. Si tratta di biofilm in materiali di origine vegetale, che si "scompongono" nel giro di 12 settimane.
Il quotidiano inglese “The Guardian” in una recente inchiesta ha calcolato che ogni anno i supermercati del Regno Unito sono responsabili della produzione di 800 mila tonnellate di rifiuti di plastica.
Siccome molte delle catene interpellate in merito alla quantità di imballaggi in plastica utilizzati non hanno risposto, si presume che la cifra possa essere sottostimata.
Dall'inchiesta, che pure presentava dati così drammatici, è però emerso che alcuni marchi sono riusciti nel giro di 10 anni ad abbattere la quantità di plastica venduta. Per esempio Co-op, il sesto gruppo inglese della Grande Distribuzione, è passata da 78.492 tonnellate nel 2006 a 43.495 nel 2016. Quello che hanno fatto è stato intervenire su alcuni imballaggi eliminando strati di plastica inutile (per esempio il polistirolo dalle confezioni di pizza) e sostituendo del tutto la plastica in alcuni casi Le ragioni per ridurre drasticamente l'impiego di questo materiale non mancano. Sappiamo infatti che ogni anno nel mondo si producono 300 milioni di tonnellate di plastica, 8 dei quali finiscono nei mari: se le cose non cambieranno il rischio è di ritrovarci nel 2050 con un rapporto plastica-pesci di 1 a 1.In Italia ha fatto scalpore all'inizio dell'anno l'introduzione di sacchetti in materiale parzialmente biodegradabile, a pagamento, nei reparti ortofrutta dei supermercati. Il loro costo, compreso tra 2 e 5 centesimi, è stato considerato da alcuni un'ingiusta tassa addebitata ai consumatori. Divieti all'uso di sacchetti di plastica sono già praticati in molti paesi del mondo, dal Marocco alla Cina, dal Brasile al Bangladesh.
Produrne e usarne meno quindi è sicuramente il primo obiettivo per limitare la quantità di rifiuti. Il secondo consiste naturalmente nel riutilizzarla. L'obiettivo dell'Unione Europea è di ridurre i 25 milioni di tonnellate l'anno di rifiuti da plastica prodotti in Europa, proprio riutilizzando e riciclando di più. Per il momento nell'UE solo il 30% della plastica viene riciclata mentre solo in 14% nel resto del mondo.
In tutto il mondo si usano più di un milione di bottiglie di plastica al minuto, soprattutto per l'acqua, secondo l'organizzazione A Plastic Planet. Meno del 9% di quelle bottiglie viene riciclato. "Per decenni ai consumatori è stata venduta la menzogna secondo cui non possiamo vivere senza plastica nel cibo e nelle bevande. Una corsia di supermercato priva di plastica smentisce tutto questo". Sutherland.

                                                    Prodotti confezionati in biofilm

Dare ai consumatori la scelta è senz'altro un primo meritevole passo, ma forse non basta a cambiare in modo significativo le abitudini e a fare davvero la differenza in termini di impatto. Occorrerebbe l'intervento dei governi. E qualcuno timidamente comincia a dichiarare guerra alla plastica. Lo ha fatto la Prima Ministra britannica Theresa May di recente, ma in maniera talmente vaga, che la sua è suonata più come una dichiarazione di intenti buonista che come una strategia politica meditata.
Il Tavolo del Riuso del Piemonte ha dato vita a “La 24 Ore del Riuso”. Le esperienze e le analisi presentate negli “Stati Generali del Riuso” organizzati insieme a Rete ONU. La giornata di dibattito che si è svolta presso il Collegio Carlo Alberto il 22 novembre.
L’obiettivo era di evidenziare il valore economico e sociale e le possibilità di sviluppo del riuso in Piemonte e in Italia nell’ambito dell’economia circolare. Nel corso della 24 Ore del Riuso è stato anche fatto il punto dei lavori in Parlamento sul PdL 1065, legge di riordino del settore che è stata incardinata in Commissione Ambiente della Camera dei Deputati.
L’obiettivo della legge è innanzitutto quello di riconoscere la valenza ambientale e occupazionale del settore e di consentire agli operatori di agire in piena legittimità e legalità. Ricordiamo che al momento mancano anche i codici Ateco che consentono di operare nel settore del commercio di beni usati con pieno riconoscimento legale. Le  pratiche organizzate di riuso rappresentano un vantaggio ambientale enorme che sottrae dallo smaltimento almeno mezzo milione di tonnellate l’anno. Le ricerche presentate hanno messo in evidenza che almeno 600.000 tonnellate di materiali potrebbero essere riutilizzati se vi fosse un organizzazione che gestisce il riutilizzo dei rifiuti urbani. Dal punto di vista economico, il mondo del riuso coinvolge più di 50.000 attività, 80.000 persone impiegate e un volume di scambi che cresce di anno in anno ( dati Rapporto Nazionale sul Riutilizzo 2018).
Il consumatore medio per contribuire al rispetto per l’ambiente può iscriversi ad un G.A. Il Gruppo d'Acquisto Solidale (G.A.S.) si costituisce, in genere, per favorire la riflessione sui temi dell'alimentazione con prodotti biologici, l'acquisto dei prodotti a prezzi accessibili per stabilire patti fiduciari tra consumatori e produttori (soprattutto locali).Un gruppo d’acquisto diventa solidale nel momento in cui decide di utilizzare il concetto di solidarietà come criterio guida nella scelta dei prodotti. Solidarietà che parte dai membri del gruppo e si estende ai produttori che forniscono i prodotti, nel rispetto dell’ambiente.
In conclusione non serve aspettare che siano i governi a risolvere il problema dell’inquinamento bensì credo sia utile promuovere progetti ecocompatibili come le “Heartships” di Reynodls e “La 24 del Riuso”.
Seguire il pensiero di Tony Cragg, non considerare il rifiuto, come tale; quindi ingegnarsi per trasformare quello che ormai non si può distruggere. Nulla si crea, nulla si distrugge, tutto si trasforma.
Quando noi gettiamo un rifiuto è come se volessimo distruggerlo ma non accade questo, la maggior parte dei rifiuti che produciamo non sono biodegradabili. Se non iniziamo in toto a cooperare per l’ambiente i risultati saranno disastrosi. La biodiversità delle specie è in discesa, molti animali si sono estinti e rischiano l’estinzione. Ci nutriamo di animali che vivono in allevamenti intensivi, animali decisamente stressati le cui carni non portano di certo benefici ai consumatori. Viviamo in città, fulcro di un sistema capitalista che porta al consumo, non è facile sfuggire al sistema. Quello ecologista è un grande impegno che andrebbe seguito da tutti.
- Gli animali prime vittime dell’economia capitalista
Gli allevamenti intensivi dovrebbero essere vietati perché fanno vivere gli animali in stati pietosi e producono direttamente o indirettamente gas quali: Gas serra (GHC) che comprende: metano (CH4), protossido d’azoto (N2O) e anidride carbonica (CO2). Ammoniaca (NH3). In Italia il 9,3% dei gas serra viene prodotto dall’agricoltura. Le principali sostanze immesse nell’ambiente dal settore agricolo sono metano e protossido di azoto.
                         Cartine con le emissioni e numero degli animali allevati
                Emissioni di Ammoniaca in Veneto e numero di animali allevati per provincia –
                fonte: Arpa e IZS

           Emissioni di Ammoniaca in Lombardia e numero di animali allevati per provincia –
           fonte: Arpa e IZS
           Emissioni per macrosettori in Emilia Romagna – Arpa 2010


-Dati sull’inquinamento degli oceani
La cosiddetta Isola di plastica del Pacifico (Great Pacific Garbage Patch) è la più grande zona di accumulo di rifiuti galleggianti al mondo. È situata in una regione nel nord dell’oceano Pacifico. Le correnti superficiali formate dai venti creano una zona di convergenza dove si accumulano detriti naturali e di origine umana che possono rimanere  intrappolati nel vortice per vari anni. La maggior parte dei detriti sono frammenti di plastica di dimensioni  microscopiche, ed escluse concentrazioni locali di rifiuti di grandi dimensioni, i detriti non sono visibili ad occhio nudo.
Nella cosiddetta "isola" non c'è possibilità di camminare. Nonostante questo, due agenti pubblicitari statunitensi hanno dichiarato che quest'accumulo di plastica in mezzo all'oceano costituisce un luogo vero e proprio, lo hanno battezzato "Isole dei Rifiuti" e hanno proclamato il vice-presidente americano Al Gore come primo "cittadino" di questa nazione. Nel settembre 2017 hanno poi promosso una petizione alle Nazioni Unite per chiederne il riconoscimento internazionale.
Scoperto nel 1988 dai ricercatori della National Oceanic and Atmospheric Administration (NOAA) degli Stati Uniti, l'accumulo di plastica nel vortice del Pacifico Nord è portato all'attenzione dei media e del grande pubblico nel 1997 grazie alla testimonianza del navigatore statunitense Charles Moore, che durante una traversata verso Los Angeles si ritrova con la sua barca a vela circondato in un ammasso di contenitori di plastica e di altri rifiuti di produzione umana. È l'oceanografo Curtis Ebbesmeyer, che aveva ricostruito le dinamiche delle correnti del Pacifico seguendo i movimenti di oggetti galleggianti persi dai cargo come giocattoli di plastica a forma di paperelle e scarpe da tennis Nike, che conia il termine Garbage Patch.
Nel 2013 il giovane olandese Boyat Slat crea la fondazione Ocean Cleanup con l'obiettivo di ripulire l'isola di plastica. Utilizzando una serie di dispositivi composti di braccia galleggianti che sfruttano le correnti oceaniche, promette di rimuovere il 50% della plastica intrappolata nel vortice del Pacifico del Nord in 5 anni.
La maggior parte della comunità scientifica ritiene che l'operazione sia una perdita di tempo, e la critica sotto vari punti di vista: il sistema di filtraggio associato alle braccia galleggianti può arrivare a trattenere solo particelle di dimensioni superiori a 1 mm, mentre la maggior parte dei frammenti di plastica intrappolati nel vortice hanno dimensioni più piccole; il sistema di filtraggio potrebbe danneggiare gli organismi marini planctonici che vivono alla superficie dell'acqua; la maggior parte dei rifiuti plastici si trova in corrispondenza delle coste e non in mezzo dagli oceani; ogni anno dai 4 ai 13 milioni di tonnellate di plastica arrivano negli oceani a causa di una cattiva gestione dei rifiuti urbani, sarebbe più utile ridurre questa emorragia piuttosto che pulire.
Quanta plastica è intrappolata nel vortice del Pacifico del Nord?Nonostante le criticità avanzate dalla comunità scientifica, la campagna di crowdfunding di Ocean Cleanup raccoglie 26 milioni di euro e la fondazione inizia a testare prototipi del dispositivo per la rimozione delle plastiche nel Mare del Nord. Nel 2015 Ocean Cleanup lancia inoltre una grande campagna di raccolta dati nella zona centrale del vortice del Pacifico Nord: durante due mesi 18 imbarcazioni effettuano 652 campionamenti alla superficie dell'oceano, campionando sia micro che macrorifiuti (5-50 cm), e nell'anno successivo vengono svolte due campagne aeree che tramite 7.000 immagini offrono una stima della quantità di mega rifiuti (> 50 cm) su 311 km2.
I dati raccolti, pubblicati sulla rivista Scientific Reports, offrono la stima più robusta della massa di plastica accumulata nel vortice del Pacifico Nord, corrispondente a 79.000 tonnellate. Questo valore, calcolato con l'ausilio di modelli matematici di circolazione oceanica, è superiore di circa 16 volte rispetto ad una stima precedente (4.800 tonnellate) ottenuta da uno studio che aveva considerato solo le microplastiche, e 4 volte superiore rispetto ad uno studio (21.000 tonnellate) che aveva considerato micro e macroplastiche. Lo studio permette inoltre di stimare in 1,6 milioni di km2 la superficie del garbage patch, ossia 5 volte l'Italia e tre volte più estesa di uno studio precedente. Ci sarebbero 1,8 trilliardi di pezzi plastica intrappolati nel vortice del Pacifico del Nord, di cui il 94% sono microplastiche.
Esse rappresentano l'8% della massa totale, mentre le reti da pesca contribuiscono per il 46% e il restante della massa è rappresentato da altri attrezzi per la pesca, incluse corde, lanterne per le ostriche, trappole per anguille, cassette di plastica per il trasporto dei molluschi, secchielli.
Gli autori suggeriscono che l'incremento nella stima della massa di plastica presente nel vortice del Pacifico Nord sia dovuto in larga parte all'utilizzazione di metodi più robusti per quantificare la presenza di macro e megaplastiche su superfici più ampie rispetto agli studi precedenti. Tuttavia, concludono dicendo che l'inquinamento da plastica "sta aumentando in maniera esponenziale e più velocemente che nelle acque circostanti". Stefano Aliani, ricercatore presso il CNR ISMAR ed esperto di rifiuti marini, fa notare che "è difficile dire se negli anni vi è stato un vero aumento, oppure se questa percezione viene da un maggior sforzo di campionamento rispetto al passato, da un cambiamento delle dinamiche del vortice oceanico dovuto d eventi come El Niño, oppure allo tsunami del Giappone del 2011 che ha sparso rifiuti in tutto il Pacifico". Lo studio stima infatti che tra il 10 e il 20% della massa dei rifiuti che si trovano intrappolati nel vortice provengono dallo tsunami del Giappone del 2011.
Enrico Zambianchi, professore di oceanografia fisica all'Università Parthenope di Napoli ed esperto di processi di dispersione nell'oceano, raggiunto via email osserva che il campionamento è molto completo e il modello oceanico usato per stimare la dispersione dei frammenti plastici nell'oceano Pacifico è ben costruito e su basi solide, ma fa notare che trarre conclusioni dai modelli matematici è un'operazione da fare sempre con cautela. Il ricercatore nota inoltre che l'aspetto più interessante del lavoro è la discrepanza tra le previsioni del modello di quanta plastica avrebbe dovuto essere intrappolata nel vortice e la quantità che è stata invece effettivamente trovata.
Gli autori dello studio notano, infatti, che basandosi sulle stime correntemente accettate dalla comunità scientifica sugli input di plastica nell'oceano a partire da fonti di origine terrestre e di origine marina, il loro modello prevede che ogni anno entrino negli oceani del mondo tra i 5,93 e i 19,3 milioni di tonnellate di plastica.
Anche nel vortice del Pacifico Nord, proseguono gli autori, avrebbero dovuto esserci milioni di tonnellate di plastica, mentre loro ne hanno trovate solo 79.000 tonnellate.
La differenza di due ordini di grandezza, proseguono gli autori, suggerisce che esistano dei meccanismi che rimuovono la plastica dalla superficie dell'oceano e/o che frammentino la plastica in particelle di dimensioni inferiori a quelle prese in considerazione dello studio (< 0.05 cm). I polimeri plastici galleggianti rappresentano circa il 60% della produzione di plastica, quindi circa la metà di tutta la plastica che arriva nell'oceano probabilmente affonda e va ad accumularsi nei sedimenti e nei canyon sottomarini. Il resto dei rifiuti plastici che invece hanno una densità che li farebbe galleggiare, ma che non sono stati ritrovati, rimane probabilmente intrappolato lungo le coste, oppure è ingerito dagli organismi marini o è rimosso esso stesso dalla superficie degli oceani a causa della perdita di galleggiabilità dovuta al biofouling e all'aggregazione.
Gli autori notano inoltre che nei loro campioni la maggior parte della massa totale dei rifiuti sono reti (46%) e altri attrezzi per la pesca, mentre
i rifiuti di origine terrestre sono poco rappresentati, nonostante si ritenga  che questi rappresentino dal 60 all'80% del totale dei rifiuti plastici. La sovra rappresentazione di rifiuti di origine marina, proseguono, potrebbe essere dovuta al fatto che questi prodotti sono creati per resistere specificatamente alle condizioni marine.
In contemporanea con la pubblicazione dell'articolo scientifico su Scientific Reports sull'isola di plastica, in Gran Bretagna è stato pubblicato il rapporto Foresight future of the sea secondo il quale l'inquinamento da plastica negli oceani potrebbe triplicare da qui al 2050 a meno che non sia messa in atto "una risposta di grandi dimensioni" per evitare che la plastica arrivi negli oceani. Secondo questo rapporto, l'inquinamento da plastica è uno dei pericoli ambientali più gravi per il mare, assieme all'aumento del livello del mare e all'aumento delle temperature delle acque. Stefano Aliani ritiene che per risolvere il problema dell'inquinamento da plastica è necessario focalizzarsi su aspetti dell'economia circolare, creando percorsi virtuosi che mettano in atto una gestione intelligente della plastica e riducano gli sprechi.
Secondo il ricercatore "Pensare di pulire il mare non è sostenibile", e mette in guardia dal non confondere il sintomo, la plastica nell'oceano, con il problema, un cattivo utilizzo della plastica e un'inadeguata gestione dei rifiuti prodotti: "Per svuotare una vasca da bagno dove il livello dell'acqua è in continuo aumento, la prima cosa da fare non è andare a cercare un secchio più grande. La prima cosa da fare è chiudere il rubinetto". Il problema dell'inquinamento da plastica affligge gli oceani di tutto il mondo, che oggi "ospitano" 5 gigantesche isole di plastica in cui si accumula, trasportata dalle correnti, la maggior parte dei rifiuti: due sono nell'oceano Pacifico, due nell'Atlantico e una nell'oceano Indiano. A queste si aggiunge il mar Mediterraneo che, afferma il WWF, è paragonabile a una vera e propria "zuppa di plastica": sesta grande zona di accumulo di rifiuti plastici al mondo, nel Mediterraneo si concentra il 7% della microplastica globale. Se si pensa che il nostro mare rappresenta appena l'1% delle acque mondiali, si tratta di un dato davvero impressionante. Tutti questi rifiuti plastici, oltre a rappresentare, naturalmente, un enorme problema dal punto di vista dell'inquinamento, sono un serio pericolo per gli animali. Un report pubblicato dal WWF riporta dati allarmanti. In tutto il mondo, oltre il 90% dei danni provocati dai nostri rifiuti alla fauna selvatica marina è dovuto alla plastica e circa 700 specie animali marine sono minacciate dalla plastica. Di queste, il 17% è stato  classificato come "minacciato" o "in pericolo critico" di estinzione da IUCN, l'Unione Internazionale per la Conservazione della Natura. Molte specie vengono ritrovate intrappolate nella plastica, 344 in tutto il mondo. Spesso succede con reti da pesca, lacci ad anello e imballaggi di plastica che possono causare ferite, lesioni, deformità.
Queste trappole di plastica risultano spesso letali per gli animali, che si ritrovano impossibilitati a muoversi per fuggire da predatori, alimentarsi  e perfino respirare.
Nel Mediterraneo le vittime principali della plastica sono uccelli, pesci, invertebrati, mammiferi marini e rettili come le tartarughe marine.
Le specie marine possono ingerire plastica in modo intenzionale, scambiandola per cibo, accidentale oppure indiretto, mangiando prede che a loro volta avevano ingoiato plastica. Secondo i dati resi noti dal WWF, solo nel Mediterraneo sono 314 le specie vittime di ingestione di plastica: pesci, tartarughe marine, uccelli e mammiferi marini. Tutte le specie di tartarughe marine presenti nel nostro mare presentano plastica nello stomaco e si stima che oltre il 90% degli uccelli marini abbia nello stomaco frammenti di plastica. Sono state rinvenute fibre e microplastiche anche in ostriche e cozze. L'ingestione di plastica, soprattutto se di grandi dimensioni, porta quasi sempre alla morte dell'animale: tra i suoi effetti più comuni ci sono ulcere, necrosi, perforazioni, blocchi intestinali e riduzione della capacità dello stomaco.
Anche nel Santuario dei Cetacei, la più grande area marina protetta del Mediterraneo, si registrano elevate concentrazioni di microplastiche. Il Santuario Pelagos, dedicato ai mammiferi marini, occupa l'area di mare che va dal nord della Corsica alle coste di Francia e Liguria. I ricercatori hanno scoperto che il plancton che si trova in questa zona possiede elevati livelli di contaminanti, che si trasferiscono ai cetacei quando si nutrono di plancton.



Capitolo 3.

MASCHERE DI ANIMALI
La prima maschera che ho realizzato è quella del pesce, nasce dall’odio personale per l’inquinamento negli oceani. In seguito ho realizzato maschere di animali in via d’estinzione per causa dell’uomo; per concludere con la maschera di gabbiano che rappresenta gli animali che riciclano.

Maschera del Pesce

- Simbologia della maschera animale

La maschera secondo Nietzsche è un simbolo, da sempre questo, rappresenta il problema tra essere e apparenza, l'impossibilità di raggiungere uno stato di coincidenza assoluta tra essenza e coscienza, tra natura e spirito. In questo caso le maschere di animali simboleggiano come l’uomo dovrebbe mettersi nei panni degli animali, ritrovando così l’equilibrio e l’armonia con il pianeta, riscoprendo l’arcadia.
Si dovrebbero vietare la produzione di materiali plastici, in particolare il packaging della frutta al super-mercato. Il vero problema sono le lobby del petrolio e la previsione sul futuro sembra chiara: finché ci sarà petrolio da estrarre si continuerà a produrre plastica. I governi mondiali non sembrano preoccuparsene.
La situazione inizierà a cambiare quando sarà troppo tardi probabilmente, i popoli si ribellano solo quando vengono privati di ogni libertà e quando l’inquinamento sarà ingestibile. Qualcosa inizierà a cambiare quando l’inquinamento priverà anche i più ricchi di respirare aria pulita o di godersi una spiaggia tropicale, quando l’aria e i mari dell’intero pianeta saranno invivibili allora forse i governi mondiali vieteranno cose come l’estrazione del petrolio. Il destino del pianeta sembra ormai condannato al peggio solo per gli interessi di pochi.
La Maschera animale, totemica, esprime l’aspetto animale prevalente eprotettore nell’individuo o nel gruppo, ed è quindi protagonista in tutti i riti o importanti cerimonie delle comunità. Indossare una maschera animale per reintegrarsi nel pianeta, vivendo, sfruttando ed apprezzando quello che ci viene dato, senza sprecarne le risorse.
Come progetto artistico della mia tesi ho realizzato otto maschere di animali inspirandomi alla serie "Big Trash animals," dell’artista Bordalo II."E’ una serie in cui io uso dei rifiuti e la città dei rifiuti per costruire immagini di animali, e l'idea è di costruire le immagini delle vittime con ciò che li distrugge.”
                                                          Bordalo II, “Big trash animals”

Nasce a Lisbona nel 1987, nipote dell’artista Artur Raul Chaves Bordalo da Silva, è un artista Portoghese che viene guidato dall’ aforisma: “ ogni rifiuto può essere un tesoro”, realizza le proprie opere, veri e propri graffiti scultorei con materiali di riciclo. Le sue opere si trovano in Portogallo, Italia, Francia e Cile.
Un'altra buona parte del suo lavoro utilizza le ferrovie come una struttura fondo per sviluppare i loro graffiti, di solito bidimensionali in questo caso, in una serie chiamata "Railroad Tracks".
Con le sue opere Bordalo II intende denunciare la società consumista e materialista che continua a considerare il rifiuto come un prodotto da eliminare, sostenendo una consapevolezza ambientale e sociale.
Condivido appieno il pensiero e apprezzo lo stile con cui opera l ’artista.
Mi sono inspirato anche sui soggetti, ovvero gli animali, i quali sono i principali “sostenitori” dell’ambiente, in quanto ogni giorno si adoperano per l’equilibro del pianeta.
                                                          Bordalo “Big trash animals”

- Animali che riciclano
I ragni possono essere considerati oltre che bravi designer anche ottimi “riciclatori”. La loro capacità è evidente visto che si servono di ogni tipo di scarto naturale, come rametti o foglie, per comporre la propria tela ripulendo l’ambiente circostante e riutilizzando materiali scartati. I paguri, non sono animali da fissa dimora ma cambiano la propria corazza in base alla crescita e la selezionano scegliendo tra oggetti di scarto come bottiglie di vetro, involucri, lattine o contenitori di plastica.
Molti esemplari di polipi costruiscono i propri rifugi in fondo al mare servendosi di materiali di scarto come  conchiglie, barattoli di vetro, noci di cocco e persino tubi rotti.
I coralli sono colonie di individui, al 75% a rischio di estinzione.
Nonostante la grande sensibilità alle variazioni climatiche, sarebbero comunque estremamente adattabili, e non rinunciano a costruire i propri habitat sfruttando i materiali di scarto più impensati, come relitti di navi, tubazioni di oleodotti in disuso e addirittura parti di impianti petroliferi.
Gli uccelli raccolgono ogni tipo di materiale anche di scarto per realizzare i propri nidi: graffette, carta di giornale, paglia, rametti ma anche avanzi di cibo trovati nei cassonetti dell’immondizia. Una particolare specie, il giardiniere della Papua Nuova Guinea, utilizza addirittura tappi di bottiglie scartate e altri oggetti di plastica dispersi nell’ambiente per rendere il proprio nido vistoso e adatto ad attirare le compagne per l’accoppiamento. Altri uccelli, come i gabbiani, arrivano a rubare e nutrirsi con gli avanzi di cibo scartati dalle persone, ripulendo così gli accumuli di spazzatura e dimostrando uno spirito molto ecologista e attento al risparmio.
                                                    Nido di giardiniere della Papua Nuova Guinea.

                                                                           Paguro
 
- Maschere di animali a rischio d’estinzione

                                                                  IL GABBIANO

 In questo elenco viene spiegato come l’uomo provochi e combatta allo stesso tempo l’estinzione ed il rischio d’estinzione di alcune specie animali. Da un lato è colpa degli allevamenti e delle agricolture intensive;
dall’altro lato c’è chi si batte per la conservazione delle specie come ricercatori, biologi e corpo forestale.


                                                                      FARFALLA

I cespugli di ortica sono «asili nido» per farfalle. La principale minacciaper alcune specie è «la riforestazione naturale, conseguenza dell’abbandono delle aree rurali, ma anche l’intensificazione dell’agricoltura. A questo si aggiunge - come sempre quando si parla di disastri naturali annunciati o in corso - il cambiamento climatico e l’innalzamento delle temperature. «In montagna alcune specie sono in diminuzione a causa delle temperature, bisognerebbe creare ambienti freschi dove possano rifugiarsi dal caldo». Leonardo Dapporto docente di Ecofisiologia e cambiamenti climatici all’Università di Firenze, ha partecipato al progetto della Lista rossa. Ora che la lista dei guai è compilata serve una soluzione, o comunque una serie di indicazioni dagli esperti su cosa fare per salvare queste sentinelle di biodiversità.
«Dobbiamo conservare i loro ambienti naturali. Il progetto dà valutazioni oggettive dello stato di salute delle specie, sono 289 in Italia. E di queste diciotto sono a rischio con allarme rosso» continua Dapporto. Per le altre etologi e ambientalisti stanno in allerta. Esistono farfalle bellissime e fragilissime come i licenidi, che vivono nei prati umidi, ecosistemi che stanno scomparendo inoltre le farfalle Apollo di origini himalayane sono delicatissime.

                                                                       CONIGLIO

Esistono al mondo una ventina di specie diverse di conigli, anche se noi europei ne conosciamo solo una, Oryctolagus cuniculus, il progenitore del coniglio domestico, pesante fino a due chili e lungo fino a 40 centimetri. Alcune di queste specie di conigli selvatici sono poco conosciute, e quasi la metà è a rischio di estinzione.
Il coniglio del vulcano (Romerolagus diazi) è a rischio di estinzione e poco conosciuto, ed è anche il secondo coniglio più piccolo al mondo: pesa al massimo 500 grammi, quanto uno scoiattolo.
Vive in un'area fredda e inospitale, sopra i 3.000 metri di quota, sulle pendici di soli quattro vulcani poco a sud di Città del Messico, nella Fascia vulcanica trasversale nota come Sierra Nevada.
Per adattarsi alla tundra alpina messicana questo coniglio ha sviluppato orecchie piccole, zampe corte e una coda vestigiale. Il corpo è tondo e complessivamente l'animale somiglia a una palla di pelo con gli occhi grandi. La pelliccia è scura per mimetizzarsi con il basalto delle roccevulcaniche. Vive in piccoli gruppi da 2 a 5 individui in gallerie ramificate lunghe anche cinque metri, e si nutre delle piante dure e basse che crescono sui vulcani, sotto i pini che sono gli unici alberi della zona.
La specie è stata pochissimo studiata, ma si è visto che ha caratteristiche molto primitive tra i lagomorfi e un esercito di parassiti specifici, esterni e interni, anch'essi con caratteristiche primitive: quattro vermi, due pulci e due acari. Il motivo è che si tratta di un'antica specie relitta che è sopravissuta alla fine della glaciazione arrampicandosi sulla cima dei vulcani. Queste quattro cime rappresentano per i conigli e per i loro parassiti delle isole circondate dalla terraferma, e l'isolamento ha indotto una forma di nanismo insulare.
Restano al momento poche migliaia di questi piccolissimi coniglietti dal pelo soffice e caldo. Il principale fattore di rischio, oltre alla caccia, è la perdita di habitat: le praterie alpine vengono incendiate per far posto a pascoli e bestiame. La buona notizia è che la protezione data alla specie dal governo messicano, anche se lentamente, sembra stia funzionando: la densità della popolazione del coniglio del vulcano è oggi in aumento.

                                                                         IL LUPO

Il Lupo Rosso, conosciuto anche come Lupo Nero della Florida o Lupo della valle del Mississippi, è un animale che abita la parte orientale degli Stati Uniti. Di colore rossiccio, è una specie morfologicamente a metà tra il Coyote e il Lupo Grigio ed è considerata tra le cinque specie di lupo maggiormente a rischio nel mondo.
Un esemplare adulto è lungo mediamente un metro e mezzo e può pesare fino a 40 kg circa. È un animale più socievole del Coyote, ma meno del Lupo Grigio. Monogamo, raggiunge la maturità sessuale verso i tre anni. Ogni coppia dà luce a 7 cuccioli circa in primavera. Questo animale, preso in grande considerazione dai Cherokee, è stato ferocemente perseguitato dai coloni che si insediarono in America. Durante lo scorso secolo, il Lupo Rosso fu letteralmente decimato dai possessori terrieri, e gli avvistamenti di questa specie divennero estremamente sporadici. Un altro rischio che corre questa specie è quello dell'inquinamento genetico con il Coyote: l'incrocio decreterebbe la scomparsa del raro Lupo Rosso nel giro di alcune generazioni.
Questa specie è stata dichiarata estinta in natura nel 1980, ma lo United States Fish and Wildlife Service (USFWS) ha reintrodotto alcuni esemplari nel North Carolina nel 1987. Al momento la popolazione attuale è costituita da poco più di un centinaio di individui.
Il progetto di ripopolamento del Lupo Rosso, con risultati alterni, è stato applicato anche in Tennessee e Florida.
                                                             ORSO POLARE

Da sempre l'orso polare è stato il simbolo delle specie a rischio estinzione. L'allarme è stato lanciato più volte ma oggi questo pericolo è più che mai reale. Un recente studio dell'International union for conservation of nature (IUCN) rivela infatti che l'habitat marino estivo ghiacciato dell'orso polare sta subendo delle drastiche riduzioni e potrebbe persino scomparire del tutto nel giro di 10 anni.
Il riscaldamento globale in costante crescita potrebbe infatti portare allo scioglimento totale dei ghiacciai estivi, con gravissime conseguenze per questi grandi predatori terrestri. Le banchise ghiacciate sono infatti i luoghi prediletti di caccia degli orsi bianchi, che d'estate preparano le riserve di grasso per affrontare il lungo digiuno invernale. Meno ghiacci significherà meno cibo e meno capacità di riproduzione, con effetti a catena che potrebbero essere fatali per la sopravvivenza di questa specie, e non solo. Solo quest'inverno le temperature hanno raggiunto picchi di 14 gradi sopra le medie stagionali. Secondo l'Arctic Climate Impact Assessment (ACIA) tra il 1960 e il 1990 è scomparso circa il 40% dello strato di ghiaccio. E potrebbe scomparire completamente prima della fine del secolo. Sempre secondo l' ACIA i fenomeni che stanno sconvolgendo i poli della Terra non hanno conseguenze solo a livello locale. L'Artico non è solo la regione più vulnerabile ai cambiamenti climatici, ma funge altresì da vero e proprio regolatore del clima del nostro pianeta. Il ghiaccio ad esempio ha un ruolo importante nel riflettere la luce solare: col suo scioglimento la Terra assorbirà più energia e più raggi ultravioletti e il tasso di riscaldamento subirà un incremento non ancora quantificabile. L'appello unanime degli scienziati è di ridurre subito le emissioni di CO2 e dunque l'utilizzo di combustibili fossili. In occasione della Conferenza Onu sui cambiamenti climatici di Copenaghen del 2009, la IUCN ha lanciato un appello ai grandi della Terra affinché giungano a un accordo vincolante sulla riduzione delle emissioni di gas serra e sulle misure di adattamento al cambiamento climatico. Ma l'appello è indirizzato anche ai semplici  cittadini: “Anche le persone comuni possono contribuire ad evitare queste tragiche perdite – ha spiegato Simon Stuart, della Species survival commission della Iucn – Possono ridurre il proprio personale impatto sul clima e  chiedere con decisione ai rispettivi governi di intervenire”. La stessa Iucn chiede di puntare, oltre che sulla drastica riduzione delle emissioni climalteranti, sulla cosiddetta Ecosystem-based Adaptation (EbA), vale a dire sull'approccio basato sulla conservazione e sulla gestione sostenibile delle risorse naturali, allo scopo di mantenere i servizi ecosistemici che la natura stessa fornisce e che rappresentano il nostro principale alleato nel contrasto degli effetti del cambiamento climatico.


                                                                  L’ELEFANTE

Gli Elefanti attualmente esistenti si classificano in tre specie, ovvero l’Elefante asiatico, unico rappresentante del genere Elephas, e gli elefanti africani di foresta e di boscaglia, appartenenti al genere dei Laxodonta.
E’ il primo, più piccolo di stazza e con le zanne limitate ai maschi, a non navigare in acque particolarmente tranquille.
Tra le sue quattro sottospecie, critiche risultano le situazioni per l‘Elefante del Borneo (1000-1600 esemplari selvatici), l’Elefante di Sumatra(2400-2800 esemplari selvatici), mentre migliorano, senza autorizzare ad abbassare il livello di guardia, per quelli dello Sri Lanka (quasi 6000 esemplari selvatici) e indiani (oltre i 30000, in parte domesticati, specie in India, dove sono considerati sacri). Anche per i proboscidati, il bracconaggio, volto al commercio dell’avorio, infligge perdite incommensurabili. Le esperienze a contatto con gli elefanti, nel Sud Est Asiatico, non si contano. Nella Tabin Widelife Riserve, Borneo malese: qui, oltre a una popolazione di elefanti del Borneo, vivono il rinoceronte di Sumatra, oranghi, scimmie nasiche, vari cervidi endemici e il curioso Banteng selvatico, bovide pure a rischio d’estinzione.


                                                             IL  RINOCERONTE

Sono comparsi nella terra circa 40 milioni di anni fa e si sono diffusi in Asia, Africa, Europa e Nord America. Oggi delle 30 specie ne rimangono 5 che vivono in Asia e Africa. I rinoceronti asiatici sono divise in tre specie diverse: quello indiano, di Giava e di Sumatra. In totale sono 3.200 rinoceronti che vivono in piccole aree isolate, di questi quelli di Giava sono solo 60 esemplari e rischiano l’estinzione.

- Conclusione
Tutto ciò che inquina è un prodotto che viene rifiutato.
Generare rifiuti è un problema per l’ambiente e per l’uomo, un problema
che potrebbe portare all’estinzione della vita sull’intero pianeta.
Un giorno non troppo lontano l’umanità potrebbe autodistruggersi,
portando con se morte, distruzione e tossicità.
La larva della tarma della cera (Galleria mellonella) è in grado di
mangiare la plastica, confondendola con la cera di cui solitamente di
nutre. Lo scarafaggio è in grado di sopravvivere ad un’esplosione
atomica. In qualche modo sembra che il pianeta voglia difendersi, queste
specie sono state in grado di adattarsi ad un cambiamento in un modo
straordinario; addirittura meglio dell’uomo.
La biodiversità è seriamente compromessa dai rifiuti; in questa tesi il mio
intento è stato quello di promuovere il rispetto per l’ambiente, cercando

di ispirare a riciclare, riusare e non inquinare.



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Napoli 6 marzo 2019