L'ARTE DEL RICICLAGGIO - TESI DI LAUREA DI TASSO MARCELLO
ACCADEMIA DI BELLE ARTI DI NAPOLI -Marzo 2019
Come abbiamo già fatto in precedenza diamo spazio ad un'interessante tesi di un giovane artista di Spinea che si è recentemente laureato al Corso triennale di Scultura presso l'Accademia di Belle Arti di Napoli.
L'artista sensibile al tema ambientale, ha affrontato il problema dei rifiuti e del consumo delle risorse attraverso la costruzione di maschere di animali in via di estinzione, interamente fatte con materiale riciclato.
Nel corso della tesi ha affrontato il problema del riciclo, del consumo di energia e dello spreco di risorse indicando nell'economia circolare la risposta a questo grande problema.
Queste le motivazioni dell'autore:
Tutto ciò che inquina è un prodotto che viene rifiutato.
Generare rifiuti è un problema per l’ambiente e per l’uomo, un problema
che potrebbe portare all’estinzione della vita sull’intero pianeta.
Un giorno non troppo lontano l’umanità potrebbe autodistruggersi,
portando con se morte, distruzione e tossicità.
La larva della tarma della cera (Galleria mellonella) è in grado di
mangiare la plastica, confondendola con la cera di cui solitamente di
nutre. Lo scarafaggio è in grado di sopravvivere ad un’esplosione
atomica. In qualche modo sembra che il pianeta voglia difendersi, queste
specie sono state in grado di adattarsi ad un cambiamento in un modo
straordinario; addirittura meglio dell’uomo.
La biodiversità è seriamente compromessa dai rifiuti; in questa tesi il mio
intento è stato quello di promuovere il rispetto per l’ambiente, cercando
di ispirare a riciclare, riusare e non inquinare.
Di seguito la tesi si può leggere per intero cliccando su questo link:
L'arte del riciclo - Tesi di Laurea di Marcello Tasso
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L’ARTE DEL RICICLAGGIO
ACCADEMIA DI BELLE ARTI DI NAPOLI
Diploma accademico di Laurea di primo livello in Scultura -
MARCELLO TASSO
INDICE
Introduzione
Capitolo 1. CONTESTUALIZZAZIONE STORICA
- Storia dell’arte del riciclaggio, dai collage di Picasso
alle “Earthships
Biotecture” di Micheal Reynolds
Capitolo 2. DISCUSSIONE ECONOMICA ED AMBIENTALE SUI RIFIUTI
- Dare una seconda vita agli oggetti, Il riuso come parte
integrante
dell’economia?
- Gli animali prime vittime dell’economia capitalista
- Dati sull’inquinamento degli oceani
Capitolo 3. MASCHERE DI ANIMALI
- Simbologia della maschera animale
- Animali che riciclano
- Maschere di animali a rischio d’estinzione
Conclusione
Introduzione
L’ Arte del Riciclaggio lega molti grandi artisti della
storia dell’arte contemporanea.
Riciclare è sintomo di forte sensibilità, significa voler continuare
a far vivere le cose. Dove la persona comune vede un vecchio oggetto come uno
scarto, l’artista contemporaneo riesce a vedere l’oggetto come “nuovo”. Il
concetto e la storia che l’oggetto porta con se permettono all’artista di
dargli un valore e nuova vita, così creando un’opera d’arte.
La sensibilità nel riciclare consiste anche nel aver a cuore
l’ambiente e gli animali. Quindi l’arte del riciclaggio deve considerarsi
essenziale come risorsa per riequilibrare le sorti del pianeta.
Capitolo 1. CONTESTUALIZZAZIONE STORICA
- Storia dell’arte del riciclaggio, dai collage di Picasso
alle “Earthships Biotecture” di Micheal Reynolds
La materia “rifiutata” entra nel mondo dell’arte nel momento
in cui l’arte trova interessante questo materiale per esprimere particolari
istanze contemporanee. È con le avanguardie storiche, fin dagli anni Dieci, che
possiamo assistere ad un cambiamento per quanto riguarda i materiali utilizzati
per creare un’opera d’arte. La prima Innovazione
che porta a comparire nell’arte materiali nuovi o inusitati è la tecnica del
collage,
termine che indica una composizione di frammenti di carta
uniti ad altri materiali disposti su un supporto.
Fu Braque a usare per primo nell' estate del 1912 frammenti
di carta da parati per ultimare una serie di disegni a carboncino. Picasso,
entusiasta del procedimento, realizzò dei "papiers collés" e fu
allora che prese forma “Nature morte à la chaise cannée”, (Natura morta con
sedia impagliata), un dipinto che è il "manifesto" del collage.
Picasso anziché dipingere una sedia rivestita di paglia prese un pezzo di tela
cerata raffigurante l' intreccio del piano, e usò una vera corda come cornice.
Nel quadro figurano altri oggetti: una fetta di limone, un
triangolo a festoni, la stilizzazione di una capasanta, un bicchiere appena
accennato da sommarie pennellate, la cannuccia e il fornello di una pipa. A
sinistra si leggono le lettere "jou", le iniziali di journal o di
jouer, giocare. Il quadro è effettivamente un gioco di parole e di immagini, è
il primo collage della storia della pittura, la materializzazione di una nuova tecnica
che da quel momento dilagò .
Fare arte dunque non significa più solo saper usare le
tecniche ma significa scegliere di usare dei materiali che rappresentano per se
stessi un significato, per conferire importanza e contenuto a materiali poveri,
addirittura di scarto.
Impiega infatti, durante tutto l’arco della sua carriera,
l’assemblaggio, per unire strisce di stoffa, frammenti di lamiera, sabbia e
perle, ritagli di giornali, cartone, fil di ferro, corda e così via come nel
suo primo assemblaggio del 1912, “Chitarra”.
Nel 1914 l’artista realizza la sua prima scultura a tutto
tondo dal titolo Bicchiere di assenzio, di cui realizza sei esemplari in
bronzo, tutti con un vero cucchiaio di assenzio incorporato. Con il termine
assemblage si intende dunque un’opera tridimensionale caratterizzata
dall’unione di diversi materiali (spesso di scarto) o oggetti o pezzi di
oggetti incollati o tenuti insieme tra di loro in qualche modo. Il termine è
stato coniato da Jean Dubuffet nel 1953 per definire questa pratica discutendo
di statuette fatte di cartapesta e rifiuti.
Come reazione diretta al collage cubista prese forma il
collage futurista con Boccioni, Balla e Carrà, il quale scopriva che applicando
forme colorate in rilievo poteva conferire al quadro un carattere industriale
che porta fuori dalla pittura da museo. Mentre Severini scrive nel 1917: “È certo
che a ogni civiltà corrisponde una forma d’arte e che per creare tale forma
d’arte l’artista deve comprendere e amare gli oggetti e i corpi che vivono
nella sua epoca. […] Non intendo porre limiti alla scelta del soggetto, vorrei
solo che fosse chiaro che gli oggetti familiari che ci circondano e dei quali
ci serviamo correntemente costituiscono dei ‘soggetti moderni’ e che non c’è
bisogno di rompersi la testa per andare a cercare fuori di noi stessi dei
‘soggetti’ che sarebbero necessariamente ispirati da concezioni intellettuali
di ordine più o meno filosofico e non da un senso puramente plastico, dal
desiderio di fare unicamente pittura. […] L’ossessione di penetrare, di
conquistare con tutti i mezzi il senso del reale, di identificarsi con la vita,
con tutte le fibre del nostro corpo è alla base delle nostre ricerche, e delle
estetiche di tutti i tempi.
In tali cause d’ordine generale va ricercata l’origine delle
nostre costruzioni geometriche ed esatte, dell’applicazione sulla tela di
materie differenti come stoffe, paillettes, vetro, carte che purtroppo sono
stati più o meno mal compresi o sistematizzati”.
Nel 1919 Raoul Hausmann realizza “Esprit de notre temps”,
costituita da una testa di legno di un manichino con incollati diversi
elementi: un portafoglio in pelle, un cartoncino bianco, un portamonete, un pezzettino
di metro da sarti, una cassa di orologio, un righello. Tutti oggetti di uso
quotidiano e oggetti che misurano lo spazio ed il tempo,
come a simboleggiare che nell’epoca industriale del
capitalismo economico, gli oggetti ed il tempo si sono Impossessati dell’anima
degli individui trasformando l’essere umano in un manichino privo di emozioni.
Le opere “Ruota di bicicletta” e “Fontana” di Marcel Duchamp
riescono a trasformare l’oggetto rifiutato in qualcosa di diverso rispetto alla
sua natura e quindi assumono importanza negando la propria funzione:
sullo sgabello non ci si può sedere così come la ruota non
trasforma in atto il suo movimento. Su questo si basa il concetto di ready
made, portato all’estrema evidenza in “Fontana” per la quale invece è rilevante
ricordare che è considerata una delle opere più rappresentative del Novecento.
Il movimento dada porta alle estreme conseguenze la critica al sistema
dell’arte; il rifiuto diventa il messaggio. Duchamp intendeva realizzare un
oggetto da osservare nell’indifferenza, “come si guarda il fuoco di un
caminetto”. Da notare come l’oggetto diventi, sebbene al momento
dell’esposizione non fosse stata accettata dalla giuria in quanto l’oggetto non
venne ritenuto artistico.
André Breton, critico e teorico del surrealismo, descrive
“Fontana”come oggetto industriale promosso alla dignità di oggetto d’arte dalla
scelta dell’artista.
Duchamp, in relazione allo Scolabottiglie (1915), dice:
“Quello che mi spingeva a scegliere un oggetto era un senso di indifferenza nei
suoi confronti, e non era affatto facile, perché qualunque cosa, se la si
guarda abbastanza a lungo, diventa bella. Quando feci lo Scolabottiglie non era
particolarmente interessante né per la forma né per altro […]. Dicono che sia
bello, ma io non l’ho scelto per la sua bellezza. […] Un pittore dipinge e
imprime il suo gusto in ciò che dipinge…
Nel caso dei ready mades si trattava di liberarsi di tale
intento o sentimento e di eliminare del tutto l’esistenza del gusto”. Duchamp compie
in questo modo un atto dissacratorio privo di precedenti. Il ready-made porta
con sé un significato contraddittorio: da un lato, essendo realizzato con un
oggetto industriale o comune, espone tutta la propria materialità fisica;
dall’altro nega la manualità del fare artistico che si riduce a pura scelta
intellettuale. Questa tecnica introduce quindi una critica all’unicità e
all’originalità di un’opera d’arte, togliendo importanza al gusto e alla
manualità ma conferendone invece all’idea. Il ready-made viene utilizzato negli
anni Trenta anche dal surrealismo: si parte in genere da un objet trouvé che
viene tolto dal suo contesto originario ma rimanda ad altri simboli attraverso
l’accostamento con altri oggetti o materiali: “Dejeuner en fourrure” di Meret
Oppenheim ne è un esempio. Si tratta di un servizio da colazione ricoperto di
pelliccia di gazzella cinese. Oppenheim è un’artista infatti portata a
realizzare delle opere cercando di mostrare il loro lato oscuro o nascosto o semplicemente
cercando di creare delle contraddizioni; l’opera in questione nasce
sorseggiando un caffè in compagnia di Picasso il quale,
notando un suo braccialetto realizzato in pelo, le chiese se
fosse in grado di ricoprire qualsiasi cosa con lo stesso pelo. Oppenheim
rispose di sì e vinse la sfida proponendo tazza, piattino e cucchiaio rigorosamente
coperti di pelliccia . Il “gesto” vale più dell’opera già per i dadaisti,
portare in una mostra un oggetto di questa sorta significa andare contro l’arte
come era stata intesa fino ad allora; bisogna rifiutare tutto: la bellezza
estetica, la logica, la purezza dei principi. Dada è libertà, spontaneità,
contraddizione, anarchia, imperfezione: carta straccia, corde e rottami possono
creare opere d’arte alla stregua di altri materiali ritenuti più nobili. È un
gesto che significa protesta e provocazione. Tali opere/oggetti oggi non ci
sembrano più così provocatori perché il tempo li ha resi comprensibili e in un
certo senso normali. Quello che ci colpisce oggi invece è, come in ogni tempo,
la modernità dei nostri giorni, e quindi oggi, come allora, vediamo in certe
opere d’arte attuali degli oggetti incomprensibili e provocatori.
Dada è ancor oggi un punto di riferimento per molti artisti
che si servono di rifiuti per fare arte. Con dada l’opera d’arte ha perso per sempre
la sua nozione di opera d’arte appunto facendo entrare definitivamente la vita quotidiana nel circuito artistico.
Naum Gabo è uno dei primi all’inizi del novecento ad
utilizzare la plastica nelle sue opere. La celluloide, la prima materia plastica
della storia, per la produzione artistica, nel 1917 (Testa di donna, 1917). Nel
costruttivismo Gabo perseguiva una pura ricerca spaziale, che lo distinse e lo
mise in contrasto con il costruttivismo sovietico degli anni venti, la cui
ricerca si poneva invece in rapporto all'industria e alla produzione.
Tra la fine degli anni Quaranta e l’inizio dei Cinquanta è
il momento dell’espansione del movimento informale. Caratteristiche importanti
di questa corrente sono la decisione di abbandonare la forma e l’importanza del
gesto e per taluni artisti anche l’introduzione della materia nelle opere
attraverso il collage. Una figura importante della corrente informale è Alberto
Burri. Presto, si allontana dalle raffigurazioni realiste e comincia ad
avvicinarsi all’astrattismo. Nel 1949 realizza il primo “Sacco” stampato. In
questi anni crea molte opere e partecipa a molte discussioni artistiche,
partecipa alla Biennale di Venezia e inizia l’opera Grande Sacco. Dal 1952
realizza i suoi primi sacchi, che sono le sue opere più conosciute, per le
quali usa vecchie tele di juta, rattoppate e bucate, come “colore” per la sua
pittura. La sua novità è che egli trova frammenti di materiali diversi e li
propone come opera d’arte. Le sue opere, realizzate con catrame, muffe, ferri e
plastiche, rivoluzionano il rapporto tra materia, forma e colore. Le mostre di
Chicago e New York del 1953 segnano l'inizio del successo internazionale. Nel
1954 realizza piccole combustioni su carta. Continua a utilizzare il fuoco
anche negli anni successivi, realizzando Legni (1956), Plastiche (1957) e Ferri
(1958 circa). Tra il 1961 e il 1969 Burri realizza il ciclo di Plastiche
combuste. L’utilizzo di rifiuti e scarti può essere considerato dunque sintomo
di una sorta di ribellione nell’arte venutasi a creare dopo il secondo
dopoguerra.
E’ questo il periodo in cui infatti numerosi artisti cercano
di portare in scena quella che per loro era la realtà pura, l’unica
rappresentabile, diversa da quella fino ad allora mostrata con l’astrattismo e
soprattutto l’espressionismo astratto che doveva essere superato in quanto considerato
obsoleto e narcisistico.
Si tratta di una sorta di rivoluzione avviata da artisti
come Picasso o Duchamp, ancora in attività, che rappresentano con la loro arte
lo spirito di cambiamento ricercato. Questi due movimenti riescono, attraverso
il loro operare, a trovare la bellezza nei rifiuti della società; l’artista conserva
ciò che la società scarta, ridà dignità agli oggetti destinati al macero e in
questo modo li salva, li colleziona e li protegge Jean Tinguely, esponente del
nouveau realisme, è invece affascinato dalle macchine e dal loro movimento
fisico: tutte le sue opere sono congegni meccanici realizzati con materiali
riciclati. I suoi punti di riferimento sono i futuristi, dada, Duchamp; lo
stesso artista infatti ammette: “Pratico sempre lo sport dell’objet trouvé”.
Tinguely utilizza oggetti di recupero, residui di macchine, pezzi, scarti,
ruote, tubi raccolti in giro per discariche per riassemblarli poi in nuove
conformazioni inutili in quanto inutilizzabili e senza alcun equilibrio. Si
tratta di una chiara critica sia al culto della macchina a lui contemporaneo
sia anche alla scultura tradizionale (in chiara contrapposizione alle sculture
del periodo totalitario degli anni Trenta) così privata di stabilità.
Inizialmente le sue macchine sono mosse da una manovella o spinte con energia
idrica; in seguito, negli anni Cinquanta, aggiunge alle sue opere un motorino nascosto
che permette loro il movimento. Queste ultime sono meglio conosciute come
Méta-métaniques, macchine semoventi costituite anch’esse da oggetti trovati e
saldati tra loro in forme antropomorfe per accentuare il concetto di organismo
vivente dell’opera e quindi il fatto che sono esseri autonomi e vivono una loro
esistenza fuori dal classico quadro: abbiamo a che fare infatti con macchine in
grado di realizzare dei disegni o di emettere dei suoni come in Relief Sonore
(1955).
Una sua notissima opera è Homage a New York del 1960, una
grande macchina inutile che l’artista espone nel giardino del Museo d’arte moderna
di New York, accumulando e assemblando elementi che recupera nelle discariche
della città: parti di motore, ottanta ruote di bicicletta, un pianoforte, un
go-cart, un ventilatore, una radio, tubi e così via… Per questo motivo la
macchina è in continuo mutamento fino ad arrivare al suo scopo cioè quello di
venir messa in azione, tra vari movimenti e rumori, e dopo mezz’ora
autodistruggersi in un incendio.
La macchina dovrebbe rappresentare l’esaltazione ma allo
stesso tempo la negazione della materia industriale di cui è composta; è una
parodia del destino di tutte le macchine e di tutti gli organismi viventi.
Quella di raccogliere scarti fu una pratica diffusa
soprattutto intorno agli anni Sessanta per quanto riguarda il new dada e il
nouveau realisme ma protrattasi fino ad oggi con il nome di trash o junk art ad
indicare il ruolo dell’oggetto svalorizzato che viene riposizionato sotto una
nuova veste. Il termine junk (spazzatura), come quello di pop art, fu coniato
dal critico d’arte Lawrance Alloway nel 1961 ad una mostra presso il Museum of
Modern Art di New York dal titolo “The Art of Assemblage”, curata da William
Seitz e a cui presero parte artisti quali Duchamp, Braque, Picasso, confermò
come l’arte dell’assemblaggio di avesse preso definitivamente piede nel mondo
dell’arte e all’apprezzamento del pubblico.
Nel 1953 Robert Rauschenberg realizza la serie “elemental
sculptures” in cui usa pietre, legno e chiodi, costruendo composizioni
equilibrate con materiali semplici ; tra il 1954 e il 1964 si dedica alla serie
che probabilmente lo ha reso famoso, i “Combines”, dove in ogni opera la differenza
tra scultura e pittura viene annullata.
Oltre un anno dalla sua morte, il Guggenheim di Venezia
dedica una mostra all’ultima serie di sculture di Robert Rauschenberg, i
“Gluts”, assemblaggi di oggetti di recupero, spesso in metallo.
Le sue opere nascono come commenti visivi alla crisi
economica causata dalla speculazione, infatti, nella metà degli anni ’80
l’economia del Texas è attraversata da una recessione provocata dalla
saturazione del mercato petrolifero: è Rauschenberg stesso ad affermare di
voler “offrire alla gente le proprie macerie”. Dal 1970, trasferitosi a Captiva
Island, Florida, l’artista va spesso in una discarica vicino alla sua nuova
casa- studio: qui recupera oggetti vecchi come ventilatori, segnali stradali,
ruote, tubi, marmitte e insegne di distributori di benzina, tutti oggetti che costituiscono
il materiale base dei suoi “Gluts”, sculture invase da un senso di “classicismo
contemporaneo”, per la loro armonia compositiva e cromatica nel saper creare
una “estetica del rottame”, da dove nasce anche un messaggio atto a commentare
la situazione socio – politica contemporanea. Infatti, lui stesso dichiara di
voler mostrare il “momento dell’eccesso e dell’avidità rampante”, sottolineando
la necessità di “guardare le cose in relazione alle loro molteplici
possibilità”.
Tali affermazioni sono utili per contestualizzare queste
opere d’arte, che, se si presentano a volte come costruzioni minimali o
composizioni barocche, sono sempre legate agli stessi oggetti ritrovati. Gli
elementi dei “Gluts” rimangono oggetti
riconoscibili che appartengono al nostro immaginario personale.
Da qui emerge perfino un aspetto ludico, provare a capire la
forma e la funzione originaria degli oggetti usati, il cui soggetto rimane
comunque il materiale. In mostra sono esposti anche i "Neapolitan
Gluts", prodotti per la scenografia di Lateral Pass della Trisha Brown
Company (1987): l’artista raccoglie per le strade di Napoli rifiuti metallici e
crea dei gluts che venivano sospesi sul palco del Teatro di San Carlo di
Napoli.
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Teatro San Carlo di Napoli, “Napolitan Gluts” . |
"L'avidità è all’ordine del giorno, e con questa mia
opera tento solo di mostrarlo, cercando di svegliare la gente. Voglio
semplicemente rappresentare le persone con le loro rovine, sto dando loro
ricordi senza nostalgia. Ciò che devono realmente fare è offrire alle persone l'esperienza
di guardare le cose in relazione alle loro molteplici possibilità".
Robert Rauschenberg
"Non ho mai provato interesse per i rifiuti, è un
termine generico ed è talmente irresponsabile usarlo. Quando smetteremo di
impiegarlo, ci renderemo conto del numero di differenti materiali da cui è
formato e quindi tratteremo la questione in maniera diversa. È vero, è solo un
esempio, un esempio veloce di come le cose possano funzionare, perché si può
anche vedere questa roba come rifiuti sulla spiaggia oppure si può iniziare a
pensarci sopra. Ogni elemento è magnifico, oppure brutto o qualsiasi altra
cosa. Dipende dalla nostra gamma dei criteri" .
Tony Cragg
Questa frase fa da filo conduttore tra l’appello
ambientalista discusso nella mia tesi e le esperienze del collage, assemblage,
object trouve, ready made e tutte le junk-art.
Tony Cragg nasce a Liverpool nel 1949, le installazioni
site-specific sono le sue prime opere a renderlo famoso, realizzate con
materiali ed oggetti di scarto. Nel 1975 realizza lo “Stack”, un cubo di
materiali riciclati avente pari altezza a quella d’una persona.
Nei primi anni Ottanta Cragg indaga l’impatto dell’uomo
sulla natura attraverso installazioni create a partire da ready-made e oggetti
di scarto. In “New Stones, Newton's Tones” oggetti e frammenti di plastica trovati
sulle spiagge, sono disposti dall’artista in un ordine cromatico che richiama
lo spettro di Newton. Collocati sul pavimento di uno spazio espositivo questi
reperti alludono in modo poetico ad una sorta di archeologia della
quotidianità.
Dagli anni novanta oltre alla plastica inizia ad operare
anche con altri materiali riciclati come vetri, ceramiche e metalli; ne sono un
esempio le opere :”Larder”, “Minster”, “Zooid”, “Spyrogyra”.
Michelangelo Pistoletto realizza opere in materiali
riciclati. Nella sua opera più famosa, “La Venere degli Stracci” vi è un netto
contrasto fra il corpo etereo della bianca statua in cemento e l’ammasso di
stracci, contrasto fra l’ immagine immutabile della divina bellazza classica e
la modernità in continuo movimento e mutamento. Pistoletto realizza un Tempio
interamente composto di materiale riciclato, cestelli di lavatrici come
capitelli, serpentine di frigoriferi nella realizzazione di tetto e frontone; elementi
rivoluzionari , all’avanguardia e metaforici.
"L'Italia riciclata", ideata per la Biennale
Internazionale di Architettura di Venezia nel 2012, toccata e percepita da
tutti in tutti i sensi, per essere fruita anche dai non vedenti. L'opera, che
allude ad un nuovo Rinascimento attraverso il riciclo e il recupero di
materiali.
Michael Reynolds è il padre della “Biotecture”, una
particolare tipologia di architettura che ruota attorno ad un concetto
portante: quello di ecosostenibilità. Reynolds inizia il suo progetto
ecosostenibile nel 1969, dopo essersi laureato in Architettura presso
l’Università di Cincinnati, discutendo una tesi sulle costruzioni effettuate
con materiali anticonvenzionali.
La “Thumb House” rappresenta uno dei suoi primi progetti in stile
“Biotecture”, ultimato nel 1972, utilizzando bottiglie di birra, uno strato di
malta e uno di intonaco overlay, dando origine al termine “Earthship Biotecture”,
termine chiave per identificare le sue creazioni, fonte di ispirazione per
molti artisti nel mondo. Reynolds ha continuato a migliorare il suo progetto
con i pannelli solari e il riscaldamento geotermico delle mura, fino a che, nel
1980, quando famosi attori americani gli commissionarono case, divenne noto
come “Green Hero”, pubblicando cinque libri sull’architettura ecosostenibile.
Le case “Earthship”, meglio note come “navi della terra”, consentono uno scambio
continuo con la natura e l’ambiente circostante, sono realizzate con materie
prime naturali, in terra, paglia, sabbia, legno, e con materiali riciclati di
origine industriale , come lattine di alluminio, pneumatici e bottiglie in
vetroSono autosufficienti e indipendenti, non necessitano di riscaldamento, che
avviene al loro interno grazie all’energia solare, né di raffreddamento, che
avviene tramite la traspirazione per mezzo della terra. Le murature continue
seminterrate sono fatte con pneumatici riempiti di sabbia, rivestiti con un
intonaco di terra cruda. I tetti delle abitazioni sono conformati in modo da
convogliare l’acqua piovana nelle cisterne di accumulo, dalle quali viene
riutilizzata per usi alimentari e sanitari, per irrigare le piante delle serre,
dove avviene anche la fitodepurazione per l’accumulo in fossa settica o fogna
esterna. Le Earthships si integrano perfettamente con l’uomo e con l’ambiente circostante.
Ma i problemi non stentano ad arrivare e le lamentele
arrivano proprio da chi ha deciso di vivere in questo tipo di case, che
sostengono la non sicurezza e la non garanzia di un buon livello di comfort. Il
Consiglio di Stato degli architetti del New Messico, tolse la licenza a
Reynolds ma tenacemente dopo 17 anni riconquistò il titolo e le licenze
necessarie per costruire le sue “Earthships”.
Nel 2004 , lo Tsunami colpì le coste dell’India e
dell’Indonesia . Reynolds e la sua squadra operarono, insieme a tutta la
popolazione, per aiutarli a costruire nuove case: nasce “Phoenix”,
un’abitazione al 100% ecosostenibile fatta con bambù, terra, cemento, bottiglie
di vetro, plastica e pneumatici.
Si tratta di case in grado di resistere ad un terremoto
corrispondente al nono grado della scala Richter e alle devastanti onde dello
Tsunami, abitazioni che accumulano il calore solare d’inverno e sono dotate di
un ingegnoso sistema di ventilazione in estate; l’acqua piovana viene raccolta,
depurata e usata per le necessità dell’orto integrato all’abitazione, mentre le
acque reflue sono gestite autonomamente da ogni famiglia, che le ricicla,
sfruttandole per le piante.
Un concetto di casa rivoluzionario. Sono case “possibili”,
ma anche auspicabili per azzerare l’impatto delle costruzioni sull’ambiente e
per fronteggiare la scarsità delle risorse energetiche, ripensando il mondo di abitare,
in linea con i diversi eventi naturali.
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“Thomb House”. |
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“Earthship”. |
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“Earthship”. |
Capitolo 2.
RICICLO DELL’IDEA
- Dare una seconda vita agli oggetti, il riuso come parte integrante
dell’economia Secondo il docente di Antropologia dell’università di Pisa,
Giovanni Boschian, 300 mila anni fa l’uomo di Neanderthal praticava il
riciclaggio; studia il sito archeologico di Castel Guido, vicino Roma. Il
docente spiega che i nostri antenati erano dediti allo sciacallaggio e spesso
mangiavano gli avanzi di altri predatori, compiendo già una sorta di riciclo
anche se non lo si può considerare appieno come riciclaggio.
Tuttavia i Neanderthal si nutrivano del midollo osseo e le
ossa non venivano considerate come un rifiuto bensì una risorsa in quanto venivano
utilizzate per ricavarne punte di lancia ed altri utensili; questa può
considerarsi la prima forma di riciclaggio dell’uomo.
Tuttavia sembrerebbe che giunti nostra epoca, l’ uomo non
abbia evoluto molto l’arte del riciclaggio bensì l’arte oscura dello
sciacallaggio. La fame nel mondo cesserebbe in un paio di giorni se si smettesse
di produrre armi e in generale produciamo troppo e continuiamo a creare rifiuti
perché iniziamo a considerare un oggetto obsoleto o inutile e lo gettiamo. Ad
esempio con una confezione di pomodorini ci si può fare un vaso per il
basilico.
Uno dei più grandi problemi sono le lobby del petrolio che
continuano a produrre prodotti e confezioni di plastica che gli garantiscono un
enorme ricavato. Petrolio significa soprattutto energia, ma l'oro nero serve
anche per realizzare un'infinità di prodotti di uso quotidiano. Dal petrolio
raffinato si ricavano, infatti, circa una ventina di prodotti, bottiglie e
oggetti di plastica, polistirolo fino ad alcuni tessuti di abbigliamento, come
il polyestere. Da un barile di petrolio si possono ricavare ben 1.750 bottiglie
di plastica da un litro e mezzo, quelle comunemente usate per acqua minerale e
bibite. Un barile contiene, infatti, convenzionalmente 159 litri di greggio,
pari a circa 135 chili.
Servono all'incirca 2 chili di petrolio per fare 1 kg di
plastica per alimenti (Pet). Quindi da un barile di petrolio si ricavano circa
70 chili di Pet.
In Italia consumiamo mediamente 5 litri di petrolio al
giorno per persona, ossia circa un barile di petrolio al mese.
Il consumo di petrolio annuale medio per una famiglia di 4
persone in Italia si aggira quindi intorno a 7.760 litri. Quasi 2.000 Euro ai
prezzi del 2005. "Non c'è assolutamente alcuna logica nel confezionare
qualcosa di così effimero come il cibo in qualcosa di indistruttibile come la
plastica". La frase pronunciata da Sian Sutherland, co-fondatrice di “A
Plastic Planet” una campagna per l'eliminazione della plastica che sta dietro
l'apertura della prima corsia di supermercato "plastic free" appena
avvenuta ad Amsterdam, nei Paesi Bassi, riassume efficacemente la questione. La
catena olandese “Ekoplaza” nasce, come il nome suggerisce, con una particolare
attenzione all'ambiente. Adesso offre ai propri clienti, che hanno a cuore le
sorti del pianeta quando fanno la spesa, la possibilità di scegliere tra 680
prodotti confezionati in vetro, cartone e materiali biodegradabili che
assomigliano alla plastica ma non inquinano. Si tratta di biofilm in materiali
di origine vegetale, che si "scompongono" nel giro di 12 settimane.
Il quotidiano inglese “The Guardian” in una recente
inchiesta ha calcolato che ogni anno i supermercati del Regno Unito sono responsabili
della produzione di 800 mila tonnellate di rifiuti di plastica.
Siccome molte delle catene interpellate in merito alla
quantità di imballaggi in plastica utilizzati non hanno risposto, si presume
che la cifra possa essere sottostimata.
Dall'inchiesta, che pure presentava dati così drammatici, è
però emerso che alcuni marchi sono riusciti nel giro di 10 anni ad abbattere la
quantità di plastica venduta. Per esempio Co-op, il sesto gruppo inglese della
Grande Distribuzione, è passata da 78.492 tonnellate nel 2006 a 43.495 nel
2016. Quello che hanno fatto è stato intervenire su alcuni imballaggi
eliminando strati di plastica inutile (per esempio il polistirolo dalle
confezioni di pizza) e sostituendo del tutto la plastica in alcuni casi Le
ragioni per ridurre drasticamente l'impiego di questo materiale non mancano.
Sappiamo infatti che ogni anno nel mondo si producono 300 milioni di tonnellate
di plastica, 8 dei quali finiscono nei mari: se le cose non cambieranno il
rischio è di ritrovarci nel 2050 con un rapporto plastica-pesci di 1 a 1.In
Italia ha fatto scalpore all'inizio dell'anno l'introduzione di sacchetti in
materiale parzialmente biodegradabile, a pagamento, nei reparti ortofrutta dei
supermercati. Il loro costo, compreso tra 2 e 5 centesimi, è stato considerato
da alcuni un'ingiusta tassa addebitata ai consumatori. Divieti all'uso di
sacchetti di plastica sono già praticati in molti paesi del mondo, dal Marocco
alla Cina, dal Brasile al Bangladesh.
Produrne e usarne meno quindi è sicuramente il primo
obiettivo per limitare la quantità di rifiuti. Il secondo consiste naturalmente
nel riutilizzarla. L'obiettivo dell'Unione Europea è di ridurre i 25 milioni di
tonnellate l'anno di rifiuti da plastica prodotti in Europa, proprio riutilizzando
e riciclando di più. Per il momento nell'UE solo il 30% della plastica viene
riciclata mentre solo in 14% nel resto del mondo.
In tutto il mondo si usano più di un milione di bottiglie di
plastica al minuto, soprattutto per l'acqua, secondo l'organizzazione A Plastic
Planet. Meno del 9% di quelle bottiglie viene riciclato. "Per decenni ai consumatori
è stata venduta la menzogna secondo cui non possiamo vivere senza plastica nel
cibo e nelle bevande. Una corsia di supermercato priva di plastica smentisce
tutto questo". Sutherland.
Prodotti confezionati in biofilm
Dare ai consumatori la scelta è senz'altro un primo
meritevole passo, ma forse non basta a cambiare in modo significativo le
abitudini e a fare davvero la differenza in termini di impatto. Occorrerebbe
l'intervento dei governi. E qualcuno timidamente comincia a dichiarare guerra
alla plastica. Lo ha fatto la Prima Ministra britannica Theresa May di recente,
ma in maniera talmente vaga, che la sua è suonata più come una dichiarazione di
intenti buonista che come una strategia politica meditata.
Il Tavolo del Riuso del Piemonte ha dato vita a “La 24 Ore
del Riuso”. Le esperienze e le analisi presentate negli “Stati Generali del
Riuso” organizzati insieme a Rete ONU. La giornata di dibattito che si è svolta
presso il Collegio Carlo Alberto il 22 novembre.
L’obiettivo era di evidenziare il valore economico e sociale
e le possibilità di sviluppo del riuso in Piemonte e in Italia nell’ambito
dell’economia circolare. Nel corso della 24 Ore del Riuso è stato anche fatto
il punto dei lavori in Parlamento sul PdL 1065, legge di riordino del settore
che è stata incardinata in Commissione Ambiente della Camera dei Deputati.
L’obiettivo della legge è innanzitutto quello di riconoscere
la valenza ambientale e occupazionale del settore e di consentire agli
operatori di agire in piena legittimità e legalità. Ricordiamo che al momento mancano
anche i codici Ateco che consentono di operare nel settore del commercio di
beni usati con pieno riconoscimento legale. Le pratiche organizzate di riuso rappresentano un
vantaggio ambientale enorme che sottrae dallo smaltimento almeno mezzo milione
di tonnellate l’anno. Le ricerche presentate hanno messo in evidenza che almeno
600.000 tonnellate di materiali potrebbero essere riutilizzati se vi fosse un organizzazione
che gestisce il riutilizzo dei rifiuti urbani. Dal punto di vista economico, il
mondo del riuso coinvolge più di 50.000 attività, 80.000 persone impiegate e un
volume di scambi che cresce di anno in anno ( dati Rapporto Nazionale sul
Riutilizzo 2018).
Il consumatore medio per contribuire al rispetto per
l’ambiente può iscriversi ad un G.A. Il Gruppo d'Acquisto Solidale (G.A.S.) si
costituisce, in genere, per favorire la riflessione sui temi dell'alimentazione
con prodotti biologici, l'acquisto dei prodotti a prezzi accessibili per
stabilire patti fiduciari tra consumatori e produttori (soprattutto locali).Un
gruppo d’acquisto diventa solidale nel momento in cui decide di utilizzare il
concetto di solidarietà come criterio guida nella scelta dei prodotti.
Solidarietà che parte dai membri del gruppo e si estende ai produttori che
forniscono i prodotti, nel rispetto dell’ambiente.
In conclusione non serve aspettare che siano i governi a
risolvere il problema dell’inquinamento bensì credo sia utile promuovere
progetti ecocompatibili come le “Heartships” di Reynodls e “La 24 del Riuso”.
Seguire il pensiero di Tony Cragg, non considerare il
rifiuto, come tale; quindi ingegnarsi per trasformare quello che ormai non si
può distruggere. Nulla si crea, nulla si distrugge, tutto si trasforma.
Quando noi gettiamo un rifiuto è come se volessimo
distruggerlo ma non accade questo, la maggior parte dei rifiuti che produciamo
non sono biodegradabili. Se non iniziamo in toto a cooperare per l’ambiente i risultati
saranno disastrosi. La biodiversità delle specie è in discesa, molti animali si
sono estinti e rischiano l’estinzione. Ci nutriamo di animali che vivono in
allevamenti intensivi, animali decisamente stressati le cui carni non portano
di certo benefici ai consumatori. Viviamo in città, fulcro di un sistema
capitalista che porta al consumo, non è facile sfuggire al sistema. Quello
ecologista è un grande impegno che andrebbe seguito da tutti.
- Gli animali prime vittime dell’economia capitalista
Gli allevamenti intensivi dovrebbero essere vietati perché
fanno vivere gli animali in stati pietosi e producono direttamente o indirettamente
gas quali: Gas serra (GHC) che comprende: metano (CH4), protossido d’azoto (N2O)
e anidride carbonica (CO2). Ammoniaca (NH3). In Italia il 9,3% dei gas serra
viene prodotto dall’agricoltura. Le principali sostanze immesse nell’ambiente
dal settore agricolo sono metano e protossido di azoto.
Cartine con le emissioni e numero degli animali allevati
Emissioni di Ammoniaca in Veneto e numero di animali
allevati per provincia –
fonte: Arpa e IZS
Emissioni di Ammoniaca in Lombardia e numero di animali
allevati per provincia –
fonte: Arpa e IZS
Emissioni per macrosettori in Emilia Romagna – Arpa 2010
-Dati sull’inquinamento degli oceani
La cosiddetta Isola di plastica del Pacifico (Great Pacific
Garbage Patch) è la più grande zona di accumulo di rifiuti galleggianti al
mondo. È situata in una regione nel nord dell’oceano Pacifico. Le correnti
superficiali formate dai venti creano una zona di convergenza dove si
accumulano detriti naturali e di origine umana che possono rimanere intrappolati nel vortice per vari anni. La
maggior parte dei detriti sono frammenti di plastica di dimensioni microscopiche, ed escluse concentrazioni
locali di rifiuti di grandi dimensioni, i detriti non sono visibili ad occhio
nudo.
Nella cosiddetta "isola" non c'è possibilità di
camminare. Nonostante questo, due agenti pubblicitari statunitensi hanno
dichiarato che quest'accumulo di plastica in mezzo all'oceano costituisce un
luogo vero e proprio, lo hanno battezzato "Isole dei Rifiuti" e hanno
proclamato il vice-presidente americano Al Gore come primo
"cittadino" di questa nazione. Nel settembre 2017 hanno poi promosso
una petizione alle Nazioni Unite per chiederne il riconoscimento
internazionale.
Scoperto nel 1988 dai ricercatori della National Oceanic and
Atmospheric Administration (NOAA) degli Stati Uniti, l'accumulo di plastica nel
vortice del Pacifico Nord è portato all'attenzione dei media e del grande
pubblico nel 1997 grazie alla testimonianza del navigatore statunitense Charles
Moore, che durante una traversata verso Los Angeles si ritrova con la sua barca
a vela circondato in un ammasso di contenitori di plastica e di altri rifiuti
di produzione umana. È l'oceanografo Curtis Ebbesmeyer, che aveva ricostruito
le dinamiche delle correnti del Pacifico seguendo i movimenti di oggetti
galleggianti persi dai cargo come giocattoli di plastica a forma di paperelle e
scarpe da tennis Nike, che conia il termine Garbage Patch.
Nel 2013 il giovane olandese Boyat Slat crea la fondazione
Ocean Cleanup con l'obiettivo di ripulire l'isola di plastica. Utilizzando una
serie di dispositivi composti di braccia galleggianti che sfruttano le correnti
oceaniche, promette di rimuovere il 50% della plastica intrappolata nel vortice
del Pacifico del Nord in 5 anni.
La maggior parte della comunità scientifica ritiene che
l'operazione sia una perdita di tempo, e la critica sotto vari punti di vista:
il sistema di filtraggio associato alle braccia galleggianti può arrivare a
trattenere solo particelle di dimensioni superiori a 1 mm, mentre la maggior
parte dei frammenti di plastica intrappolati nel vortice hanno dimensioni più piccole;
il sistema di filtraggio potrebbe danneggiare gli organismi marini planctonici
che vivono alla superficie dell'acqua; la maggior parte dei rifiuti plastici si
trova in corrispondenza delle coste e non in mezzo dagli oceani; ogni anno dai
4 ai 13 milioni di tonnellate di plastica arrivano negli oceani a causa di una
cattiva gestione dei rifiuti urbani, sarebbe più utile ridurre questa emorragia
piuttosto che pulire.
Quanta plastica è intrappolata nel vortice del Pacifico del
Nord?Nonostante le criticità avanzate dalla comunità scientifica, la campagna di
crowdfunding di Ocean Cleanup raccoglie 26 milioni di euro e la fondazione
inizia a testare prototipi del dispositivo per la rimozione delle plastiche nel
Mare del Nord. Nel 2015 Ocean Cleanup lancia inoltre una grande campagna di
raccolta dati nella zona centrale del vortice del Pacifico Nord: durante due
mesi 18 imbarcazioni effettuano 652 campionamenti alla superficie dell'oceano,
campionando sia micro che macrorifiuti (5-50 cm), e nell'anno successivo
vengono svolte due campagne aeree che tramite 7.000 immagini offrono una stima
della quantità di mega rifiuti (> 50 cm) su 311 km2.
I dati raccolti, pubblicati sulla rivista Scientific
Reports, offrono la stima più robusta della massa di plastica accumulata nel
vortice del Pacifico Nord, corrispondente a 79.000 tonnellate. Questo valore,
calcolato con l'ausilio di modelli matematici di circolazione oceanica, è
superiore di circa 16 volte rispetto ad una stima precedente (4.800 tonnellate)
ottenuta da uno studio che aveva considerato solo le microplastiche, e 4 volte
superiore rispetto ad uno studio (21.000 tonnellate) che aveva considerato
micro e macroplastiche. Lo studio permette inoltre di stimare in 1,6 milioni di
km2 la superficie del garbage patch, ossia 5 volte l'Italia e tre volte più
estesa di uno studio precedente. Ci sarebbero 1,8 trilliardi di pezzi plastica
intrappolati nel vortice del Pacifico del Nord, di cui il 94% sono microplastiche.
Esse rappresentano l'8% della massa totale, mentre le reti
da pesca contribuiscono per il 46% e il restante della massa è rappresentato da
altri attrezzi per la pesca, incluse corde, lanterne per le ostriche, trappole per
anguille, cassette di plastica per il trasporto dei molluschi, secchielli.
Gli autori suggeriscono che l'incremento nella stima della
massa di plastica presente nel vortice del Pacifico Nord sia dovuto in larga
parte all'utilizzazione di metodi più robusti per quantificare la presenza di macro
e megaplastiche su superfici più ampie rispetto agli studi precedenti.
Tuttavia, concludono dicendo che l'inquinamento da plastica "sta
aumentando in maniera esponenziale e più velocemente che nelle acque
circostanti". Stefano Aliani, ricercatore presso il CNR ISMAR ed esperto
di rifiuti marini, fa notare che "è difficile dire se negli anni vi è stato
un vero aumento, oppure se questa percezione viene da un maggior sforzo di
campionamento rispetto al passato, da un cambiamento delle dinamiche del
vortice oceanico dovuto d eventi come El Niño, oppure allo tsunami del Giappone
del 2011 che ha sparso rifiuti in tutto il Pacifico". Lo studio stima
infatti che tra il 10 e il 20% della massa dei rifiuti che si trovano
intrappolati nel vortice provengono dallo tsunami del Giappone del 2011.
Enrico Zambianchi, professore di oceanografia fisica
all'Università Parthenope di Napoli ed esperto di processi di dispersione
nell'oceano, raggiunto via email osserva che il campionamento è molto completo
e il modello oceanico usato per stimare la dispersione dei frammenti plastici nell'oceano
Pacifico è ben costruito e su basi solide, ma fa notare che trarre conclusioni
dai modelli matematici è un'operazione da fare sempre con cautela. Il
ricercatore nota inoltre che l'aspetto più interessante del lavoro è la
discrepanza tra le previsioni del modello di quanta plastica avrebbe dovuto
essere intrappolata nel vortice e la quantità che è stata invece effettivamente
trovata.
Gli autori dello studio notano, infatti, che basandosi sulle
stime correntemente accettate dalla comunità scientifica sugli input di
plastica nell'oceano a partire da fonti di origine terrestre e di origine
marina, il loro modello prevede che ogni anno entrino negli oceani del mondo
tra i 5,93 e i 19,3 milioni di tonnellate di plastica.
Anche nel vortice del Pacifico Nord, proseguono gli autori,
avrebbero dovuto esserci milioni di tonnellate di plastica, mentre loro ne
hanno trovate solo 79.000 tonnellate.
La differenza di due ordini di grandezza, proseguono gli
autori, suggerisce che esistano dei meccanismi che rimuovono la plastica dalla superficie
dell'oceano e/o che frammentino la plastica in particelle di dimensioni
inferiori a quelle prese in considerazione dello studio (< 0.05 cm). I
polimeri plastici galleggianti rappresentano circa il 60% della produzione di
plastica, quindi circa la metà di tutta la plastica che arriva nell'oceano
probabilmente affonda e va ad accumularsi nei sedimenti e nei canyon
sottomarini. Il resto dei rifiuti plastici che invece hanno una densità che li
farebbe galleggiare, ma che non sono stati ritrovati, rimane probabilmente
intrappolato lungo le coste, oppure è ingerito dagli organismi marini o è
rimosso esso stesso dalla superficie degli oceani a causa della perdita di
galleggiabilità dovuta al biofouling e all'aggregazione.
Gli autori notano inoltre che nei loro campioni la maggior
parte della massa totale dei rifiuti sono reti (46%) e altri attrezzi per la
pesca, mentre
i rifiuti di origine terrestre sono poco rappresentati,
nonostante si ritenga che questi
rappresentino dal 60 all'80% del totale dei rifiuti plastici. La sovra
rappresentazione di rifiuti di origine marina, proseguono, potrebbe essere
dovuta al fatto che questi prodotti sono creati per resistere specificatamente
alle condizioni marine.
In contemporanea con la pubblicazione dell'articolo
scientifico su Scientific Reports sull'isola di plastica, in Gran Bretagna è
stato pubblicato il rapporto Foresight future of the sea secondo il quale l'inquinamento
da plastica negli oceani potrebbe triplicare da qui al 2050 a meno che non sia
messa in atto "una risposta di grandi dimensioni" per evitare che la
plastica arrivi negli oceani. Secondo questo rapporto, l'inquinamento da
plastica è uno dei pericoli ambientali più gravi per il mare, assieme
all'aumento del livello del mare e all'aumento delle temperature delle acque.
Stefano Aliani ritiene che per risolvere il problema dell'inquinamento da
plastica è necessario focalizzarsi su aspetti dell'economia circolare, creando
percorsi virtuosi che mettano in atto una gestione intelligente della plastica
e riducano gli sprechi.
Secondo il ricercatore "Pensare di pulire il mare non è
sostenibile", e mette in guardia dal non confondere il sintomo, la
plastica nell'oceano, con il problema, un cattivo utilizzo della plastica e
un'inadeguata gestione dei rifiuti prodotti: "Per svuotare una vasca da
bagno dove il livello dell'acqua è in continuo aumento, la prima cosa da fare
non è andare a cercare un secchio più grande. La prima cosa da fare è chiudere il
rubinetto". Il problema dell'inquinamento da plastica affligge gli oceani
di tutto il mondo, che oggi "ospitano" 5 gigantesche isole di plastica
in cui si accumula, trasportata dalle correnti, la maggior parte dei rifiuti:
due sono nell'oceano Pacifico, due nell'Atlantico e una nell'oceano Indiano. A
queste si aggiunge il mar Mediterraneo che, afferma il WWF, è paragonabile a
una vera e propria "zuppa di plastica": sesta grande zona di accumulo
di rifiuti plastici al mondo, nel Mediterraneo si concentra il 7% della
microplastica globale. Se si pensa che il nostro mare rappresenta appena l'1%
delle acque mondiali, si tratta di un dato davvero impressionante. Tutti questi
rifiuti plastici, oltre a rappresentare, naturalmente, un enorme problema dal
punto di vista dell'inquinamento, sono un serio pericolo per gli animali. Un
report pubblicato dal WWF riporta dati allarmanti. In tutto il mondo, oltre il 90%
dei danni provocati dai nostri rifiuti alla fauna selvatica marina è dovuto
alla plastica e circa 700 specie animali marine sono minacciate dalla plastica.
Di queste, il 17% è stato classificato
come "minacciato" o "in pericolo critico" di estinzione da
IUCN, l'Unione Internazionale per la Conservazione della Natura. Molte specie
vengono ritrovate intrappolate nella plastica, 344 in tutto il mondo. Spesso succede
con reti da pesca, lacci ad anello e imballaggi di plastica che possono causare
ferite, lesioni, deformità.
Queste trappole di plastica risultano spesso letali per gli
animali, che si ritrovano impossibilitati a muoversi per fuggire da predatori,
alimentarsi e perfino respirare.
Nel Mediterraneo le vittime principali della plastica sono
uccelli, pesci, invertebrati, mammiferi marini e rettili come le tartarughe
marine.
Le specie marine possono ingerire plastica in modo
intenzionale, scambiandola per cibo, accidentale oppure indiretto, mangiando
prede che a loro volta avevano ingoiato plastica. Secondo i dati resi noti dal WWF,
solo nel Mediterraneo sono 314 le specie vittime di ingestione di plastica:
pesci, tartarughe marine, uccelli e mammiferi marini. Tutte le specie di
tartarughe marine presenti nel nostro mare presentano plastica nello stomaco e
si stima che oltre il 90% degli uccelli marini abbia nello stomaco frammenti di
plastica. Sono state rinvenute fibre e microplastiche anche in ostriche e
cozze. L'ingestione di plastica, soprattutto se di grandi dimensioni, porta
quasi sempre alla morte dell'animale: tra i suoi effetti più comuni ci sono
ulcere, necrosi, perforazioni, blocchi intestinali e riduzione della capacità
dello stomaco.
Anche nel Santuario dei Cetacei, la più grande area marina
protetta del Mediterraneo, si registrano elevate concentrazioni di
microplastiche. Il Santuario Pelagos, dedicato ai mammiferi marini, occupa
l'area di mare che va dal nord della Corsica alle coste di Francia e Liguria. I
ricercatori hanno scoperto che il plancton che si trova in questa zona possiede
elevati livelli di contaminanti, che si trasferiscono ai cetacei quando si nutrono
di plancton.
Capitolo 3.
MASCHERE DI ANIMALI
La prima maschera che ho realizzato è quella del pesce,
nasce dall’odio personale per l’inquinamento negli oceani. In seguito ho
realizzato maschere di animali in via d’estinzione per causa dell’uomo; per concludere
con la maschera di gabbiano che rappresenta gli animali che riciclano.
Maschera del Pesce
- Simbologia della maschera animale
La maschera secondo Nietzsche è un simbolo, da sempre
questo, rappresenta il problema tra essere e apparenza, l'impossibilità di raggiungere
uno stato di coincidenza assoluta tra essenza e coscienza, tra natura e
spirito. In questo caso le maschere di animali simboleggiano come l’uomo
dovrebbe mettersi nei panni degli animali, ritrovando così l’equilibrio e
l’armonia con il pianeta, riscoprendo l’arcadia.
Si dovrebbero vietare la produzione di materiali plastici,
in particolare il packaging della frutta al super-mercato. Il vero problema
sono le lobby del petrolio e la previsione sul futuro sembra chiara: finché ci
sarà petrolio da estrarre si continuerà a produrre plastica. I governi mondiali
non sembrano preoccuparsene.
La situazione inizierà a cambiare quando sarà troppo tardi probabilmente,
i popoli si ribellano solo quando vengono privati di ogni libertà e quando
l’inquinamento sarà ingestibile. Qualcosa inizierà a cambiare quando
l’inquinamento priverà anche i più ricchi di respirare aria pulita o di godersi
una spiaggia tropicale, quando l’aria e i mari dell’intero pianeta saranno
invivibili allora forse i governi mondiali vieteranno cose come l’estrazione
del petrolio. Il destino del pianeta sembra ormai condannato al peggio solo per
gli interessi di pochi.
La Maschera animale, totemica, esprime l’aspetto animale
prevalente eprotettore nell’individuo o nel gruppo, ed è quindi protagonista in
tutti i riti o importanti cerimonie delle comunità. Indossare una maschera animale
per reintegrarsi nel pianeta, vivendo, sfruttando ed apprezzando quello che ci
viene dato, senza sprecarne le risorse.
Come progetto artistico della mia tesi ho realizzato otto
maschere di animali inspirandomi alla serie "Big Trash animals,"
dell’artista Bordalo II."E’ una serie in cui io uso dei rifiuti e la città
dei rifiuti per costruire immagini di animali, e l'idea è di costruire le
immagini delle vittime con ciò che li distrugge.”
Bordalo II, “Big trash animals”
Nasce a Lisbona nel 1987, nipote dell’artista Artur Raul
Chaves Bordalo da Silva, è un artista Portoghese che viene guidato dall’
aforisma: “ ogni rifiuto può essere un tesoro”, realizza le proprie opere, veri
e propri graffiti scultorei con materiali di riciclo. Le sue opere si trovano
in Portogallo, Italia, Francia e Cile.
Un'altra buona parte del suo lavoro utilizza le ferrovie
come una struttura fondo per sviluppare i loro graffiti, di solito
bidimensionali in questo caso, in una serie chiamata "Railroad
Tracks".
Con le sue opere Bordalo II intende denunciare la società
consumista e materialista che continua a considerare il rifiuto come un
prodotto da eliminare, sostenendo una consapevolezza ambientale e sociale.
Condivido appieno il pensiero e apprezzo lo stile con cui
opera l ’artista.
Mi sono inspirato anche sui soggetti, ovvero gli animali, i
quali sono i principali “sostenitori” dell’ambiente, in quanto ogni giorno si
adoperano per l’equilibro del pianeta.
Bordalo “Big trash animals”
- Animali che riciclano
I ragni possono essere considerati oltre che bravi designer
anche ottimi “riciclatori”. La loro capacità è evidente visto che si servono di
ogni tipo di scarto naturale, come rametti o foglie, per comporre la propria
tela ripulendo l’ambiente circostante e riutilizzando materiali scartati. I
paguri, non sono animali da fissa dimora ma cambiano la propria corazza in base
alla crescita e la selezionano scegliendo tra oggetti di scarto come bottiglie
di vetro, involucri, lattine o contenitori di plastica.
Molti esemplari di polipi costruiscono i propri rifugi in
fondo al mare servendosi di materiali di scarto come conchiglie, barattoli di vetro, noci di cocco
e persino tubi rotti.
I coralli sono colonie di individui, al 75% a rischio di estinzione.
Nonostante la grande sensibilità alle variazioni climatiche,
sarebbero comunque estremamente adattabili, e non rinunciano a costruire i
propri habitat sfruttando i materiali di scarto più impensati, come relitti di
navi, tubazioni di oleodotti in disuso e addirittura parti di impianti
petroliferi.
Gli uccelli raccolgono ogni tipo di materiale anche di
scarto per realizzare i propri nidi: graffette, carta di giornale, paglia,
rametti ma anche avanzi di cibo trovati nei cassonetti dell’immondizia. Una particolare
specie, il giardiniere della Papua Nuova Guinea, utilizza addirittura tappi di
bottiglie scartate e altri oggetti di plastica dispersi nell’ambiente per
rendere il proprio nido vistoso e adatto ad attirare le compagne per
l’accoppiamento. Altri uccelli, come i gabbiani, arrivano a rubare e nutrirsi
con gli avanzi di cibo scartati dalle persone, ripulendo così gli accumuli di
spazzatura e dimostrando uno spirito molto ecologista e attento al risparmio.
Nido di giardiniere della Papua Nuova Guinea.
Paguro
- Maschere di animali a rischio d’estinzione
IL GABBIANO
In questo
elenco viene spiegato come l’uomo provochi e combatta allo stesso tempo
l’estinzione ed il rischio d’estinzione di alcune specie animali. Da un lato è
colpa degli allevamenti e delle agricolture intensive;
dall’altro lato c’è chi si batte per la conservazione delle
specie come ricercatori, biologi e corpo forestale.
FARFALLA
I cespugli di ortica sono «asili nido» per farfalle. La
principale minacciaper alcune specie è «la riforestazione naturale, conseguenza
dell’abbandono delle aree rurali, ma anche l’intensificazione dell’agricoltura.
A questo si aggiunge - come sempre quando si parla di disastri naturali
annunciati o in corso - il cambiamento climatico e l’innalzamento delle
temperature. «In montagna alcune specie sono in diminuzione a causa delle
temperature, bisognerebbe creare ambienti freschi dove possano rifugiarsi dal
caldo». Leonardo Dapporto docente di Ecofisiologia e cambiamenti climatici all’Università
di Firenze, ha partecipato al progetto della Lista rossa. Ora che la lista dei
guai è compilata serve una soluzione, o comunque una serie di indicazioni dagli
esperti su cosa fare per salvare queste sentinelle di biodiversità.
«Dobbiamo conservare i loro ambienti naturali. Il progetto
dà valutazioni oggettive dello stato di salute delle specie, sono 289 in
Italia. E di queste diciotto sono a rischio con allarme rosso» continua
Dapporto. Per le altre etologi e ambientalisti stanno in allerta. Esistono
farfalle bellissime e fragilissime come i licenidi, che vivono nei prati umidi,
ecosistemi che stanno scomparendo inoltre le farfalle Apollo di origini
himalayane sono delicatissime.
CONIGLIO
Esistono al mondo una ventina di specie diverse di conigli,
anche se noi europei ne conosciamo solo una, Oryctolagus cuniculus, il
progenitore del coniglio domestico, pesante fino a due chili e lungo fino a 40 centimetri.
Alcune di queste specie di conigli selvatici sono poco conosciute, e quasi la
metà è a rischio di estinzione.
Il coniglio del vulcano (Romerolagus diazi) è a rischio di
estinzione e poco conosciuto, ed è anche il secondo coniglio più piccolo al
mondo: pesa al massimo 500 grammi, quanto uno scoiattolo.
Vive in un'area fredda e inospitale, sopra i 3.000 metri di
quota, sulle pendici di soli quattro vulcani poco a sud di Città del Messico,
nella Fascia vulcanica trasversale nota come Sierra Nevada.
Per adattarsi alla tundra alpina messicana questo coniglio
ha sviluppato orecchie piccole, zampe corte e una coda vestigiale. Il corpo è
tondo e complessivamente l'animale somiglia a una palla di pelo con gli occhi grandi.
La pelliccia è scura per mimetizzarsi con il basalto delle roccevulcaniche.
Vive in piccoli gruppi da 2 a 5 individui in gallerie ramificate lunghe anche
cinque metri, e si nutre delle piante dure e basse che crescono sui vulcani,
sotto i pini che sono gli unici alberi della zona.
La specie è stata pochissimo studiata, ma si è visto che ha
caratteristiche molto primitive tra i lagomorfi e un esercito di parassiti
specifici, esterni e interni, anch'essi con caratteristiche primitive: quattro
vermi, due pulci e due acari. Il motivo è che si tratta di un'antica specie
relitta che è sopravissuta alla fine della glaciazione arrampicandosi sulla
cima dei vulcani. Queste quattro cime rappresentano per i conigli e per i loro parassiti
delle isole circondate dalla terraferma, e l'isolamento ha indotto una forma di
nanismo insulare.
Restano al momento poche migliaia di questi piccolissimi
coniglietti dal pelo soffice e caldo. Il principale fattore di rischio, oltre
alla caccia, è la perdita di habitat: le praterie alpine vengono incendiate per
far posto a pascoli e bestiame. La buona notizia è che la protezione data alla
specie dal governo messicano, anche se lentamente, sembra stia funzionando: la
densità della popolazione del coniglio del vulcano è oggi in aumento.
IL LUPO
Il Lupo Rosso, conosciuto anche come Lupo Nero della Florida
o Lupo della valle del Mississippi, è un animale che abita la parte orientale
degli Stati Uniti. Di colore rossiccio, è una specie morfologicamente a metà
tra il Coyote e il Lupo Grigio ed è considerata tra le cinque specie di lupo maggiormente
a rischio nel mondo.
Un esemplare adulto è lungo mediamente un metro e mezzo e
può pesare fino a 40 kg circa. È un animale più socievole del Coyote, ma meno
del Lupo Grigio. Monogamo, raggiunge la maturità sessuale verso i tre anni.
Ogni coppia dà luce a 7 cuccioli circa in primavera. Questo animale, preso in
grande considerazione dai Cherokee, è stato ferocemente perseguitato dai coloni
che si insediarono in America. Durante lo scorso secolo, il Lupo Rosso fu
letteralmente decimato dai possessori terrieri, e gli avvistamenti di questa
specie divennero estremamente sporadici. Un altro rischio che corre questa
specie è quello dell'inquinamento genetico con il Coyote: l'incrocio
decreterebbe la scomparsa del raro Lupo Rosso nel giro di alcune generazioni.
Questa specie è stata dichiarata estinta in natura nel 1980,
ma lo United States Fish and Wildlife Service (USFWS) ha reintrodotto alcuni
esemplari nel North Carolina nel 1987. Al momento la popolazione attuale è costituita
da poco più di un centinaio di individui.
Il progetto di ripopolamento del Lupo Rosso, con risultati
alterni, è stato applicato anche in Tennessee e Florida.
ORSO POLARE
Da sempre l'orso polare è stato il simbolo delle specie a
rischio estinzione. L'allarme è stato lanciato più volte ma oggi questo
pericolo è più che mai reale. Un recente studio dell'International union for conservation
of nature (IUCN) rivela infatti che l'habitat marino estivo ghiacciato
dell'orso polare sta subendo delle drastiche riduzioni e potrebbe persino
scomparire del tutto nel giro di 10 anni.
Il riscaldamento globale in costante crescita potrebbe
infatti portare allo scioglimento totale dei ghiacciai estivi, con gravissime
conseguenze per questi grandi predatori terrestri. Le banchise ghiacciate sono
infatti i luoghi prediletti di caccia degli orsi bianchi, che d'estate
preparano le riserve di grasso per affrontare il lungo digiuno invernale. Meno
ghiacci significherà meno cibo e meno capacità di riproduzione, con effetti a catena
che potrebbero essere fatali per la sopravvivenza di questa specie, e non solo.
Solo quest'inverno le temperature hanno raggiunto picchi di 14 gradi sopra le
medie stagionali. Secondo l'Arctic Climate Impact Assessment (ACIA) tra il 1960
e il 1990 è scomparso circa il 40% dello strato di ghiaccio. E potrebbe
scomparire completamente prima della fine del secolo. Sempre secondo l' ACIA i
fenomeni che stanno sconvolgendo i poli della Terra non hanno conseguenze solo
a livello locale. L'Artico non è solo la regione più vulnerabile ai cambiamenti
climatici, ma funge altresì da vero e proprio regolatore del clima del nostro
pianeta. Il ghiaccio ad esempio ha un ruolo importante nel riflettere la luce
solare: col suo scioglimento la Terra assorbirà più energia e più raggi
ultravioletti e il tasso di riscaldamento subirà un incremento non ancora
quantificabile. L'appello unanime degli scienziati è di ridurre subito le
emissioni di CO2 e dunque l'utilizzo di combustibili fossili. In occasione
della Conferenza Onu sui cambiamenti climatici di Copenaghen del 2009, la IUCN
ha lanciato un appello ai grandi della Terra affinché giungano a un accordo
vincolante sulla riduzione delle emissioni di gas serra e sulle misure di
adattamento al cambiamento climatico. Ma l'appello è indirizzato anche ai
semplici cittadini: “Anche le persone
comuni possono contribuire ad evitare queste tragiche perdite – ha spiegato
Simon Stuart, della Species survival commission della Iucn – Possono ridurre il
proprio personale impatto sul clima e chiedere
con decisione ai rispettivi governi di intervenire”. La stessa Iucn chiede di puntare,
oltre che sulla drastica riduzione delle emissioni climalteranti, sulla
cosiddetta Ecosystem-based Adaptation (EbA), vale a dire sull'approccio basato
sulla conservazione e sulla gestione sostenibile delle risorse naturali, allo
scopo di mantenere i servizi ecosistemici che la natura stessa fornisce e che
rappresentano il nostro principale alleato nel contrasto degli effetti del
cambiamento climatico.
L’ELEFANTE
Gli Elefanti attualmente esistenti si classificano in tre specie,
ovvero l’Elefante asiatico, unico rappresentante del genere Elephas, e gli
elefanti africani di foresta e di boscaglia, appartenenti al genere dei
Laxodonta.
E’ il primo, più piccolo di stazza e con le zanne limitate
ai maschi, a non navigare in acque particolarmente tranquille.
Tra le sue quattro sottospecie, critiche risultano le
situazioni per l‘Elefante del Borneo (1000-1600 esemplari selvatici),
l’Elefante di Sumatra(2400-2800 esemplari selvatici), mentre migliorano, senza autorizzare
ad abbassare il livello di guardia, per quelli dello Sri Lanka (quasi 6000
esemplari selvatici) e indiani (oltre i 30000, in parte domesticati, specie in
India, dove sono considerati sacri). Anche per i proboscidati, il bracconaggio,
volto al commercio dell’avorio, infligge perdite incommensurabili. Le
esperienze a contatto con gli elefanti, nel Sud Est Asiatico, non si contano.
Nella Tabin Widelife Riserve, Borneo malese: qui, oltre a una popolazione di
elefanti del Borneo, vivono il rinoceronte di Sumatra, oranghi, scimmie
nasiche, vari cervidi endemici e il curioso Banteng selvatico, bovide pure a
rischio d’estinzione.
IL RINOCERONTE
Sono comparsi nella terra circa 40 milioni di anni fa e si
sono diffusi in Asia, Africa, Europa e Nord America. Oggi delle 30 specie ne
rimangono 5 che vivono in Asia e Africa. I rinoceronti asiatici sono divise in
tre specie diverse: quello indiano, di Giava e di Sumatra. In totale sono 3.200
rinoceronti che vivono in piccole aree isolate, di questi quelli di Giava sono
solo 60 esemplari e rischiano l’estinzione.
- Conclusione
Tutto ciò che inquina è un prodotto che viene rifiutato.
Generare rifiuti è un problema per l’ambiente e per l’uomo,
un problema
che potrebbe portare all’estinzione della vita sull’intero
pianeta.
Un giorno non troppo lontano l’umanità potrebbe
autodistruggersi,
portando con se morte, distruzione e tossicità.
La larva della tarma della cera (Galleria mellonella) è in
grado di
mangiare la plastica, confondendola con la cera di cui
solitamente di
nutre. Lo scarafaggio è in grado di sopravvivere ad
un’esplosione
atomica. In qualche modo sembra che il pianeta voglia
difendersi, queste
specie sono state in grado di adattarsi ad un cambiamento in
un modo
straordinario; addirittura meglio dell’uomo.
La biodiversità è seriamente compromessa dai rifiuti; in
questa tesi il mio
intento è stato quello di promuovere il rispetto per
l’ambiente, cercando
di ispirare a riciclare, riusare e non inquinare.
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Napoli 6 marzo 2019